[ 25 settembre 2012 ]
Aldo Femia* (per greenreport.it)
Quando le imprese industriali producono di
meno, è ovvio, si tende a produrre meno rifiuti. Lo stesso vale per i
rifiuti urbani, quando i consumi di beni materiali diminuiscono.
L'attuale crisi economica, nell'Italia di questi anni ha drammaticamente preso la forma della deindustrializzazione, alla quale il calo dei consumi finali è coerente e sinergico. In conseguenza, in Italia da qualche anno si tende a generare meno rifiuti, meno emissioni, meno reflui. Quando anche il settore delle costruzioni stagna, si consuma meno suolo, si scava di meno nelle cave, si disturbano meno gli habitat naturali con nuove infrastrutture...
L'attuale crisi economica, nell'Italia di questi anni ha drammaticamente preso la forma della deindustrializzazione, alla quale il calo dei consumi finali è coerente e sinergico. In conseguenza, in Italia da qualche anno si tende a generare meno rifiuti, meno emissioni, meno reflui. Quando anche il settore delle costruzioni stagna, si consuma meno suolo, si scava di meno nelle cave, si disturbano meno gli habitat naturali con nuove infrastrutture...
Insomma, è
evidente che meno si fa, meno si tende a generare conseguenze negative
per l'ambiente naturale, e - nella misura in cui ne dipende - per la
salute umana. Ai livelli attuali dei flussi di materia e con la
struttura attuale di incentivi e disincentivi, è inimmaginabile che si
vada rapidamente in direzione della chiusura dei cicli materiali del
sistema socioeconomico. Lo impedisce non solo l'enorme quantità di
energia che serve per far "girare la macchina" all'attuale velocità di throughput della
materia, ma anche la tendenza della stessa materia a degradare e
mescolarsi nelle trasformazioni, fino ad essere inutilizzabile - almeno
alle condizioni date della tecnologia - per qualsiasi scopo (a parte i
far soldi con lo smaltimento, legale o illegale).
Il
Consumo Materiale Diretto - che si misura come estrazione interna più
scambi netti con l'estero in termini fisici, e quantifica l'insieme dei
materiali che nell'economia italiana si incorpora in nuovi stock
(edifici, infrastrutture, macchinari...), o si trasforma in emissioni,
reflui e rifiuti - è sceso dagli 856 milioni di tonnellate del 2006
(anno di massimo) ai 711 Mt del 2009, ed è prevedibile che non torni ad
aumentare negli anni successivi. Il calo interessa un po' tutte le
categorie di materiali, da quelli da costruzione ai combustibili
fossili, alle biomasse all'import netto di prodotti compositi (che in
quanto prodotti, non sono estratti dall'ambiente naturale nazionale ma
solo scambiati con l'estero)[nota: per i dettagli si veda http://dati.istat.it - Conti nazionali - Conti dei flussi di materia].
La
crisi porta buone notizie per l'ambiente, dunque? All'ingrosso (oltre
al "quanto", contano pure il "come" e il "dove") e nell'immediato,
sicuramente sì. Ma le notizie sono veramente buone solo se le novità
sono sostenibili, cioè se derivano da una evoluzione coerente di tutti
gli elementi del quadro delle compatibilità socioeconomiche. Poiché la
riduzione dei rifiuti e degli altri flussi dal lato dell'output nasce da
una crisi del presente modello di produzione e consumo, e non da un suo
mutamento socialmente ed economicamente sostenibile, rimangono forti i
motivi di preoccupazione. Forse la crisi può essere trasformata in
opportunità di cambiamento, attraverso politiche economiche adeguate,
delle quali però non si vede l'ombra. Ciò richiederebbe interventi
piuttosto radicali, capaci in particolare di salvaguardare il lavoro che
altrimenti va distrutto o, meglio, redistribuire quello rimanente
trasformando quella che oggi è perdita del posto di lavoro per alcuni in
risparmio di fatica un po' per tutti.
Peraltro,
le cause del recente trend discendente dei rifiuti e delle emissioni in
Italia sono solo in parte strutturali. La parte strutturale,
difficilmente reversibile, è nella ricollocazione nei mercati
internazionali che la nostra economia sta subendo, visibile appunto come
deindustrializzazione. Ma vi è anche una parte "congiunturale": in
particolare la produzione di rifiuti derivante dai consumi delle
famiglie potrebbe facilmente riprendere ad aumentare nel momento in cui
affluisse maggior reddito nelle tasche dell'italiano medio (non è questo
il luogo per indagare a fondo la possibilità che ciò avvenga una volta
distrutta la base industriale, ma non è detto che vendendo all'estero
cultura e servizi turistici non si possano comprare dall'estero i beni
materiali di consumo che non si producono più). Per tale parte della
generazione di rifiuti, come per quella parte dell'industria che
resiste, sono ancora necessarie scelte precise della società. Per quanto
stiano emergendo, anche perché rese più convenienti dalla stessa crisi,
scelte imprenditoriali in sintonia con una cultura del consumo
"sostenibile" sempre più diffusa, non sembra che si esca ancora dalle
nicchie.
Inoltre, occorre confrontarsi
con le rigidità che le scelte fatte sinora hanno incorporato nel
sistema. Un esempio emblematico è dato dall'apparente paradosso insito
nella crisi che sta investendo il settore dello smaltimento della
spazzatura negli inceneritori, che quando prevede il "recupero" di una
porzione (piccola) dell'energia in essi incorporata assume il nome di
"termovalorizzazione". Da qualche tempo, a seguito dello scarseggiare e
del costo crescente della loro materia prima, sempre più contesa a
livello nazionale e internazionale, si assiste ad una situazione di
crisi di inceneritori e termovalorizzatori, dei quali è noto essere
economicamente convenienti solo quando funzionano ad alto regime. Tale
crisi sta portando addirittura alla chiusura di qualcuno di essi (il che
non vuol dire dismissione: occorre star pronti alla ripresa!).
Pochi
fenomeni come questa "crisi dei rifiuti" mostrano l'assurdità del
modello corrente di produzione e consumo e - anche all'interno di esso -
della scelta della "termovalorizzazione" dei rifiuti.
Non
si vuole qui significare che quella della termovalorizzazione sia in
assoluto e a priori da considerare una scelta del tutto irrazionale -
almeno allo stato dell'arte delle possibilità di tecniche di gestire e
riciclare i rifiuti, compresi quelli derivanti dallo stesso trattamento o
riciclaggio dei rifiuti. E' questo il caso, ad esempio, dei rifiuti da
rifiuto, riluttanti a lasciarsi reinserire nei cicli produttivi. Per
questi, certo, non si può escludere che la termovalorizzazione sia oggi
il minore dei mali, come mostrano alcuni studi per specifici materiali.
Ma
è evidente come la scelta del fuoco, che oggi trasforma soprattutto
risorse ancora potenzialmente utili in emissioni verso l'ambiente
esprima appieno la contraddizione di una società che dovrebbe
radicalmente e decisamente prendere la strada del ridimensionamento dei
cicli materiali dell'economia, cioè perseguire una chiusura tendenziale
di tali cicli, e incentivare la ricerca di soluzioni alternative (e che
proprio tale strada dichiara di prendere: si vedano le voci "3 R",
"azioni per la produzione e il consumo sostenibile" e simili, nelle
agende nominali di governi nazionali e locali).
La
crisi dei termovalorizzatori mostra quanto meno che se ne sono
costruiti troppi, persino in relazione ai livelli attuali dei flussi
materiali (e quindi delle quantità di rifiuti prodotte). Probabilmente
si è guardato avanti pensando linearmente, cioè sulla base di
prospettive di crescita che per il momento non si avverano. Quella che
nella direttiva europea sui rifiuti, recepita in Italia nel millennio
scorso con il cosiddetto "decreto Ronchi", era una ultima ratio, è diventata per alcuni ratio dominante
nella "gestione" dei rifiuti. E' un bene, a parere di chi scrive, che
la scelta da questi propugnata si presenti oggi fallimentare anche sul
piano finanziario: raro manifestarsi di quella supposta razionalità,
anche ecologica, del mercato, che si insegna nelle università ma che non
emerge mai nel mondo reale, almeno finché l'economia "tira".
*è primo ricercatore presso l'Istat
fonte: http://www.greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=17955
Nessun commento:
Posta un commento