Rilevante pronuncia della Corte di cassazione in materia di falso ideologico nell’ambito del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica (art. 146 del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.).
La sentenza Corte cass., Sez. III, 23 dicembre 2020, n. 37165 ha confermato che costituisce l’ipotesi di reato di falso ideologico commesso da pubblico ufficiale (art. 479 cod. pen.) il rilascio di autorizzazione paesaggistica da parte del funzionario pubblico in base a giudizio di discrezionalità tecnico-scientifica basato su elementi non rispondenti a parametri normativi, non rispondenti al vero e non verificati da parte del soggetto emittente ovvero nei casi in cui si discosti volontariamente dai criteri di valutazione normativamente o tecnicamente accettati.
L’indirizzo interpretativo costituisce ormai giurisprudenza costante (Corte cass., Sez. III, 12 ottobre 2018, n. 46228; Corte cass., Sez. III, 12 ottobre 2018, n. 46239).
Gruppo d’Intervento Giuridico odv
Cass. Sez. III n. 37165 del 23 dicembre 2020 (UP 22 set 2020)
Pres. Ramacci Est. Gentili Ric. Mariano ed altri
Beni Ambientali. Autorizzazione paesaggistica e falso.
Integra il reato previsto dall’art. 479 cod. pen. il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell’ufficio tecnico competente, quando il giudizio di discrezionalità tecnica presupposto, in quanto fondato su dati non rispondenti al vero e non verificati da parte dell’organo pubblico, non sia rispondente ai parametri normativi richiesti per l’emanazione dell’atto amministrativo o nei casi in cui l’agente si discosti consapevolmente dai criteri di valutazione normativamente fissati o da criteri tecnici generalmente accettati
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Lecce ha riformato la sentenza con la quale il Tribunale di tale medesima città aveva mandato assolti gli imputati Mariano Cosimo, Mariano Eleno, Ricciardi Lucio, Corciulo Felice e Tedoldi Daniele dalle imputazioni loro contestate, aventi ad oggetto, per tutti, la violazione degli artt. 44, lettera c), del dPR n. 380 del 2001 per avere, in concorso fra loro, consentito e realizzato in territorio del Comune di Castrignano del Capo, a seguito dell’illecito rilascio di un permesso a costruire, un manufatto edile avente una volumetria di mc 150,45, utilizzando illecitamente l’accorpamento non consentito, in mancanza delle condizioni di legge, della volumetria edificabile relativa ad altro, non prossimo, terreno, avente, peraltro, una destinazione d’uso diversa da quella dichiarata, nonché la violazione sia dell’art. 181, comma 1-bis, del dlgs n. 42 del 2004, avendo eseguito le opere di cui sopra in assenza del prescritto valido nulla osta paesaggistico, sia dell’art. 734 cod. pen., per avere, sempre in concorso fra loro alterato, nello svolgimento della medesima condotta di cui ai precedenti capi di imputazione, bellezze naturali in luoghi sottoposti a vincoli paesaggistici, e per i soli Tedoldi, Ricciardi, Mariano Cosimo e Mariano Eleno anche la violazione dell’art. 479 cod. pen, per avere concorso nell’illecito rilascio del permesso a costruire avente ad oggetto le opere di cui sopra, predisponendo una relazione tecnica nella quale si attestava falsamente la sussistenza degli elementi necessari per l’ottenimento del provvedimento sopra indicato.
La Corte di merito, adita dalla locale Procura della Repubblica, preso atto che la sentenza assolutoria emessa dal Tribunale si fondava essenzialmente sul rilievo che i fondi in relazione ai quali era stato operato l’accorpamento dei volumi edificabili, essendo stato per tale ragione consentito il rilascio del permesso a costruire relativa alla opera edile realizzata, erano “non distanti”, ha ritenuto che siffatto requisito fosse stato falsamente attestato, unitamente ad altri, dal professionista che aveva raccolto la documentazione utilizzata per il rilascio del premesso a costruire, così che lo stesso poteva essere definito illecitamente concesso ed ha, pertanto, dichiarato la penale responsabilità degli imputati Mariano Cosimo ed Eleno, Ricciardi Lucio, Corciulo Felice e Tedoldi Daniele quanto ai reati di cui ai capi A e B della rubrica, previa riqualificazione del secondo fra questi in guisa di contravvenzione e non più di delitto, ha prosciolto i medesimi imputati, ad eccezione del Tedoldi che è stato assolto per non aver commesso il fatto, quanto alla imputazione di cui al capo C, previa riqualificazione del reato ai sensi dell’art. 480 cod. pen., per intervenuta prescrizione, e li ha, pertanto, condannati alla pena, sospesa per tutti tranne che per Mariano Cosimo, in relazione alla posizione del quale ostavano i precedenti penali su di lui gravanti, di mesi 3 di arresto ed euro 32.000,00 di ammenda, ordinando, altresì la demolizione delle opere abusive ed il ripristino dello stato dei luoghi, oltre a dichiarare la falsità del permesso a costruire di cui al capo di imputazione, il tutto oltre accessori, ivi compreso il ristoro del danno civile nei confronti della costituita parte civile.
Avverso la predetta sentenza hanno interposto ricorso per cassazione i seguenti imputati: Mariano Eleno e Mariano Cosimo, con unico atto, assistiti dall’avv. Fersini; Ricciardi Lucio, assistito dall’avv. De Matteis, Corciulo Felice, assistito dall’avv. Vincenti; Tedoldi Daniele, assistito dagli avv.ti Verri e Spagnolo.
Prendendo le mosse, nell’illustrare i singoli atti di impugnazione e le relative doglianze in essi dedotte, da quello formulato nell’interesse dei due imputati Mariano Eleno e Mariano Cosimo, rispettivamente progettista dell’intervento edilizio e beneficiario del permesso a costruire in ipotesi fondato su dati falsi, si osserva che lo stesso è articolato in relazione a 4 motivi di impugnazione.
Con il primo di essi i ricorrenti si sono doluti, con riferimento alla inosservanza o erronea applicazione della legge penale, del fatto che la Corte territoriale, nell’affermare la illegittimità dell’intervento edilizio di cui al punto a) del capo di imputazione non avrebbe tenuto conto della esistenza nella normativa locale applicabile quanto al territorio del Comune di Castrignano del Capo di una disciplina particolare che avrebbe previsto, in deroga ai principi generali, il trasferimento della volumetria edilizia anche con riferimento al terreno interessato dalle opere di cui alla imputazione.
Con il secondo motivo la difesa dei ricorrenti ha lamentato la applicazione che sarebbe stata fatta dell’art. 51 della legge della Regione Puglia n. 56 del 1980, disposizione che non avrebbe più alcuna valenza essendo la efficacia di essa venuta meno a seguito della adozione nel territorio in questione del Piano urbanistico territoriale, elemento questo che avrebbe costituito condizione risolutiva per la permanenza in vigore della legge in discorso.
Il terzo motivo di ricorso attiene alla violazione di legge in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel non aver rilevato la carenza dell’elemento soggettivo nella condotta dei prevenuti e ciò sia con riferimento alla perdurante vigenza delle limitazioni all’istituto dell’accorpamento di cui alla legge regionale n. 56 del 1980, sia in relazione alla possibilità di rilevare una condotta penalmente significativa, sotto l’aspetto del falso, nella produzione delle attestazioni riguardanti la conformità delle opere edificande alle prescrizioni legislative ed in ordine alla sussistenza delle altre condizioni per il rilascio del permesso a costruire.
Il quarto motivo riguarda, infine, il vizio di motivazione in relazione alla esclusione delle circostanze attenuanti generiche, il cui riconoscimento sarebbe stato giustificato in ragione del carattere controverso e complesso delle questioni giuridiche sottese alla fattispecie ed in ragione della esistenza di una prassi amministrativa che avrebbe giustificato una forma di affidamento da parte degli imputati sulla legittimità delle loro condotte.
Passando al ricorso presentato da Ricciardi Lucio, va detto che lo stesso è articolato attraverso 5 motivi di impugnazione.
Con il primo il ricorrente ha censurato, sia con riferimento alla violazione di legge che al vizio di motivazione la parte della sentenza con la quale è affermata la responsabilità del Ricciardi, funzionario del Comune di Castrignano del Capo, anche in relazione alle difformità esistenti fra quanto autorizzato dal Comune e quanto autonomamente realizzato dagli altri imputati.
Con il secondo motivo è, in sostanza, censurata la valutazione operata in sede di merito in relazione alla illegittimità della ritenuta integrazione del reato edilizio contestato, stante la incertezza normativa esistente al riguardo e stante la non chiarezza sul punto della sentenza oggetto di ricorso, la quale non preciserebbe adeguatamente le ragioni per le quali l’intervento si porrebbe in contrasto con la normativa, primaria e secondaria vigente in loco.
Il terzo motivo riguarda, sempre con riferimento al vizio di violazione di legge ed a quello di difetto di motivazione, la parte della sentenza della Corte salentina avente ad oggetto la ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati in contestazione, sebbene, l’esistenza di una consolidata prassi presso i Comuni della zona nel senso di assentire interventi edilizi del tipo di quello di cui alla imputazione mossa ai prevenuti, avrebbe dovuto far ritenere che non vi fosse in capo al ricorrente la consapevolezza della contestata violazione penalmente rilevante.
Il quarto motivo attiene alla ritenuta derivazione del reato di carattere paesaggistico dalla violazione della normativa urbanistica, sebbene gli interessi posti in giuoco dalle diverse disposizioni in ipotesi violate non avrebbero consentito la immediata conseguenzialità fra le due ipotesi contravvenzionali in contestazione.
Con il quinto motivo di ricorso anche la difesa del Ricciardi si è doluta, quanto alla violazione di legge e quanto al vizio di motivazione, perché la Corte territoriale non ha ritenuto il ricorrente meritevole delle circostanze attenuanti generiche.
Il ricorrente Corciulo ha formulato avverso la sentenza impugnata 5 motivi di ricorso; il primo motivo attiene alla violazione dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., per avere la Corte territoriale integralmente riformato la sentenza di primo grado, con la quale era stata dichiarata la assoluzione degli imputati, senza previamente procedere alla rinnovazione della istruttoria dibattimentale, cioè l’esame dibattimentale del teste De Matteis come, invece, sarebbe prescritto dalla disposizione che si assume essere stata violata.
Con il secondo motivo il ricorrente ha censurato la sentenza della Corte salentina in quanto in essa non sarebbe stato affatto chiarito quale sarebbero state le ragioni per le quali egli è stato dichiarato penalmente responsabile, in particolare quanto all’elemento soggettivo, dei fatti addebitatigli.
Il ricorrente ha, quindi, segnalato quale vizio della sentenza proprio il fatto che la Corte non ha escluso la presenza in capo al Corciulo del necessario elemento soggettivo dei reati edilizi a lui ascritti.
Anche la difesa del Corciulo si è lagnata, con riferimento al vizio di motivazione, del mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.
Ha, infine, segnalato l’avvenuta prescrizione anche dei reati residui, il cui maturare sarebbe intervenuto in data 25 settembre 2019, cioè fra il deposito dei motivi della sentenza di appello e la proposizione del presente ricorso.
Il ricorrente Tedoldi ha impugnato la sentenza della Corte affidando le sue doglianze a quattro motivi di ricorso.
Il primo motivo concerne il vizio di motivazione della sentenza della Corte di appello che ha riformato la sentenza di primo grado senza avere superato le ragioni, di fatto e di diritto, che avevano, indotto il primo giudice ad assolvere i prevenuti.
Il secondo motivo attiene al vizio di violazione di legge, per non avere la Corte territoriale fatto buon governo delle disposizioni che disciplinano l’istituto dell’accorpamento edilizio, cioè della cessione di cubatura fra i fondi.
Il terzo motivo ha ad oggetto il vizio di motivazione per avere la Corte ritenuto macroscopicamente viziato il titolo abilitativo in base al quale le opere edili di cui in motivazione sono state realizzate, senza tenere conto del principio per cui non la illegittimità del titolo edilizio comporta la integrazione del delitto di abusivismo ma la sua illiceità; peraltro la Corte di Lecce non avrebbe indagato a sufficienza sulla ricorrenza in capo al Tedoldi dell’elemento soggettivo dei reati a lui contestati.
Infine, i difensori del Tedoldi si sono lagnati in quanto nella motivazione della sentenza di appello la responsabilità per il reato di carattere paesaggistico è stata fatta discendere da quella riguardante gli altri illeciti edilizi, sebbene essi abbiano una ben diversa oggettività giuridica.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono, nella loro integralità, inammissibili in quanto i motivi di impugnazione in essi dedotto sono o direttamente inammissibili o, comunque, manifestamente infondati.
Partendo, nell’esame delle singole doglianze formulate dagli imputati, da quelle articolate da Mariano Eleno e da Mariano Cosimo, rispettivamente progettista dell’intervento edilizio per cui è causa e redattore della relazione tecnica ad esso allegata il primo, e soggetto ad istanza del quale è stato rilasciato il permesso a costruire n. 83 del 2010 dal Comune di Castrignano del Capo il secondo, si osserva, quanto alla prima doglianza da costoro congiuntamente formulata, che la stessa è evidentemente priva di pregio, atteso che la medesima postulerebbe la esistenza, e la applicazione, di una qualche normativa di carattere locale, avente efficacia derogatoria rispetto alle altre normative, aventi carattere generale e rango poziore nell’ambito della gerarchia delle fonti normative, disciplinanti l’istituto dell’accorpamento delle volumetrie edilizia; si tratta di una tesi non accettabile, posto che una siffatta efficacia derogatoria, pur in astratto compatibile con i principi, sarebbe, comunque, stato necessario che fosse stata autorizzata dalla fonte superiore, cosa che i ricorrenti non dimostrano né assolutamente evidenziano.
Quanto al secondo motivo di impugnazione, riguardante il vizio che sarebbe costituito dall’aver dato la Corte di merito applicazione all’art. 51 della legge della Regione Puglia n. 56 del 1980, normativa, cosa di cui la Corte salentina dà ampiamente atto, che già diverse volte questa Corte ha ritenuto non essere più vigente (cfr., infatti, per tutte: Corte di cassazione, Sezione III penale, 27 febbraio 2015, n. 8635).
Rileva la Corte che il motivo di impugnazione è privo di fondamento, avendo nella motivazione della sentenza impugnata i giudici di merito osservato che, a prescindere dalla applicazione della predetta disciplina, l’intervento edilizio per cui è processo, caratterizzato dalla applicazione dell’istituto della cessione della cubatura edificatoria fra fondi a fini elusivi delle regole di pianificazione edilizia, è di per sé macroscopicamente violativo della normativa urbanistica, sicché nessuna applicazione è stata fatta della disciplina regionale evocata dai ricorrenti e, pertanto, il motivo di ricorso dedotto dagli stessi è chiaramente inammissibile.
Passando al terzo motivo di impugnazione, riguardante il vizio di motivazione in relazione alla ricorrenza dell’elemento soggettivo dei reati contestati al due imputati ora ricorrenti, si osserva che, per ciò che attiene alle imputazioni aventi ad oggetto violazioni di carattere contravvenzionale, per le quali la responsabilità penale ricorre anche in caso di atteggiamento solamente colposo degli agenti, l’avvenuta realizzazione dei manufatti abusivi nella consapevolezza della falsità delle informazioni rese alla P. a. comunale onde conseguire gli atti autorizzatori, integra gli estremi quanto meno della colpa e, pertanto, consente di affermare il perfezionamento del reato.
Riguardo al reato di falso, oggetto di indagine sebbene già dichiarato prescritto, in quanto costituisce il presupposto per l’affermazione della illiceità dell’intervento edilizio, va, anche in questo caso, osservato che lo stesso, anche a seguito della riqualificazione della condotta ai sensi dell’art. 480 cod. pen. e non ai sensi dell’art. 479 cod. pen., come originariamente previsto nel capo di imputazione, è punibile a titolo di dolo generico, consistente nella consapevolezza di avere attestato, nella documentazione posta a corredo della richiesta di permesso a costruire, dati non veritieri.
Con riferimento a detta imputazione va segnalato il fatto che, in numerosi casi analoghi al presente, questa Corte ha già osservato che integra il reato previsto dall’art. 479 cod. pen. il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell’ufficio tecnico competente, quando il giudizio di discrezionalità tecnica presupposto, in quanto fondato su dati non rispondenti al vero e non verificati da parte dell’organo pubblico, non sia rispondente ai parametri normativi richiesti per l’emanazione dell’atto amministrativo o nei casi in cui l’agente si discosti consapevolmente dai criteri di valutazione normativamente fissati o da criteri tecnici generalmente accettati (Corte di cassazione, Sezione III penale, 12 ottobre 2018, n. 46228; idem Sezione III penale, 12 ottobre 29018, n. 46239).
Di tale reato rispondono, evidentemente, sia i funzionari che abbiano redatto l’atto senza svolgere alcun tipo di controllo, sia coloro i quali hanno fornito loro, come nel caso in esame i due Mariano, le indicazioni, mendaci, per la sua formazione.
Per l’esame del quarto motivo di ricorso, avente ad oggetto il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, si rinvia, in considerazione del fatto che lo stesso è stato formulato, con sostanziale comunione di argomenti, anche da altri ricorrenti, allo scrutinio che si farà anche di tali altri motivi di ricorso.
Riguardo al ricorso proposto da Ricciardi Lucio, rileva questa Corte che, con riferimento al primo motivo di impugnazione, con il quale il prevenuto, responsabile dell’Ufficio tecnico del Comune di Castrignano del Capo, lamenta il fatto che sia stata attribuita a lui la realizzazione di opere edilizie in difformità rispetto a quelle oggetto del permesso a costruire da lui rilasciato, la tesi defensionale del prevenuto non tiene conto del fatto che la difformità di quanto è stato edificato rispetto a quanto costituiva l’oggetto della richiesta di permesso a costruire assentita dal ufficio comunale diretto dal Ricciardi non è stata una autonoma ed estemporanea iniziativa degli altri coimputati ma, secondo quanto emerge dal capo di imputazione contestato al Ricciardi, essa emergeva già dagli elaborati tecnici che corredavano la richiesta assentita, da cui emergeva, date le caratteristiche strutturali del manufatto e la sua tipologia costruttiva, che non si trattava di una “fabbricato rurale composto da un’abitazione ed un deposito”, motivo per il quale la posizione del Ricciardi sul punto non è dissimile da quella degli altri correi.
Con il secondo motivo di impugnazione, riguardante il reato edilizio, ci si duole del fatto che, in sostanza, i giudici del merito, abbiano ritenuto integrato il reato, sulla base della affermazione della macroscopica illegittimità del permesso a costruire rilasciato dal Comune di Castrignano del Capo in assenza di una chiara descrizione dei motivi che avevano indotto a formulare siffatto giudizio di illegittimità.
Al riguardo è sufficiente osservare che l’intervento edilizio era stato realizzato attraverso l’utilizzazione dell’istituto della cessione della cubatura.
Come già più volte osservato da questa stessa Sezione della Corte di cassazione, l’istituto in questione, originariamente di fonte negoziale, la cui legittimità è stata ripetutamente avallata in sede
giurisprudenziale (per tutte si veda: Consiglio di Stato, Sezione 5, 28 giugno 2000, n. 3636), consente, a prescindere dalla comune titolarità dei due terreni, la “cessione” della cubatura edificabile propria di un fondo in favore di altro fondo, cosicché, invariata la cubatura complessiva risultante, il fondo cessionario sarà caratterizzato da un indice di edificabilità superiore a quello originariamente goduto.
Tale meccanismo, tuttavia, onde evitare la facile elusione dei vincoli posti alla realizzazione di manufatti edili in funzione della corretta gestione del territorio, è soggetto a determinate condizioni delle quali le principali, alcuni dei quali rilevanti nella presente vicenda, sono costituite: a) dall’essere i terreni in questione se non precisamente contermini, quanto meno dotati del requisito della reciproca prossimità; b) dall’essere i medesimo caratterizzati sia dalla omogeneità urbanistica, avere cioè tutti la medesima destinazione, sia dalla medesimezza del indice di fabbricabilità originario.
È, infatti, evidente che in assenza delle predette condizioni, attraverso l’utilizzazione del predetto strumento, astrattamente del tutto legittimo, sarebbe possibile realizzare scopi del tutto estranei ed anzi confliggenti con le esigenze di corretta pianificazione del territorio.
Ciò, a mero scopo esemplificativo ma anche con particolare riferimento alla presente fattispecie, si potrebbe verificare laddove si ritenesse legittima la “cessione di cubature” fra terreni fra loro distanti, potendosi in tal modo realizzare per un verso una situazione di “affollamento edilizio” in determinate zone (quelle ove sono ubicati i fondi cessionari) e di carenza in altre (ove sono situate i terreni cedenti), con evidente pregiudizio per l’attuazione dei complessivi criteri di programmazione edilizia contenuti negli strumenti urbanistici; pregiudizio ancora più manifesto ove fosse consentita la “cessione di cubatura” fra terreni aventi diversa destinazione urbanistica ovvero diverso indice di edificabilità; è, infatti, evidente che ove fosse consentito l’asservimento di un terreno avente un indice di fabbricabilità più vantaggioso di quello proprio del terreno asservente, ovvero avente una diversa destinazione, le esigenze di pianificazione urbanistica che avevano presieduto alla scelta amministrativa di differenziare gli indici di edificabilità dei due fondi, ovvero la loro stessa destinazione, rimarrebbero inevitabilmente insoddisfatte (cosi, testualmente, fra le altre: Corte di cassazione, Sezione III penale, 27 febbraio 2015, n. 8635).
Nel caso in esame, come chiaramente emerge dal non contestato dato contenuto nel capo di imputazione, i fondi le cui volumetrie edificabili sono state accorpate non erano fra loro prossimi, sicchè ne era risultata, in parte qua, stravolta la pianificazione edilizia prevista con gli strumenti urbanistici vigenti nel Comune.
Il terzo motivo, afferente alla carenza dell’elemento soggettivo in capo al ricorrente in quanto egli aveva fatto, nello svolgimento della sua attività, affidamento ad una prassi amministrativa che avrebbe consentito un tal genere di operazioni è manifestamente infondato sol che si si rifletta sul fatto che una pressi amministrativa illegittima, anzi del tutto illecita, non può determinare il costituirsi di alcun affidamento sulla correttezza di un determinato comportamento amministrativo, sebbene ripetutamente tenuto, tale da escludere l’elemento soggettivo dei reato contestati.
Quanto al quarto motivo, con il quale è lamentata la immediata derivazione del reato paesaggistico da quello edilizio, si rileva che, premessa la incontestata presenza di vincoli paesaggistici nella zona ove l’immobile abusivo è stato realizzato, non risponde al vero la circostanza che la violazione paesaggistica è stata fatta derivare da quella edilizia, pur in presenza di reati afferenti ad interessi pubblici ontologicamente diversi; si è, semplicemente, rilevato da parte dei giudici del merito, con valutazione del tutto perspicua, che, a fronte di un permesso a costruire macroscopicamente viziato, il procedimento amministrativo attraverso il quale era stato concesso il nullaosta paesaggistico avente ad oggetto il medesimo manufatto interessato dal permesso a costruire in questione, era, a sua volta viziato, nella parte in cui esso era basato su detto permesso illegittimamente rilasciato.
Con riferimento al quinto motivo di ricorso, relativo alla mancata concessione delle attenuanti generiche, se ne rinvia ad altro momento la valutazione, come già fatto quanto all’analoga doglianza formulata dai due precedenti ricorrenti.
Venendo al ricorso di Corciulo Felice si osserva che il primo motivo di impugnazione, con il quale è stata dedotta la illegittimità della sentenza impugnata in quanto, essendo stata con essa riformata la originaria statuizione assolutoria pronunziata dal Tribunale di Lecce, la Corte di appello salentina, adita dal locale Pm, avrebbe dovuto, in ossequio al dettato dell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., prima di procedere alla riforma della sentenza di fronte a lei impugnata, disporre la rinnovazione dell’esame istruttorio del teste assunto nel corso del giudizio di primo grado, costituisce un assunto che, per come sviluppato, è privo di consistenza.
Infatti, la previsione normativa contenuta nell’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. impone, se rettamente interpretato il suo dettato, la rinnovazione dell’esame dei testi sentiti nel corso del giudizio di primo grado, in caso di impugnazione proposta dal Pm avverso una sentenza di proscioglimento, solo nel caso in cui la impugnazione abbia ad oggetto motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, cioè laddove sia in discussione la attendibilità di quanto riferito dal teste in questione ovvero la interpretazione materiale di quanto da costui riportato.
Laddove invece, indiscusso il significato letterale delle dichiarazioni rese dal teste, è stato riconsiderato dalla Corte di appello esclusivamente il loro eventuale effetto in termini di esito del giudizio, non vi è alcuna necessità di riaprire l’attività istruttoria in sede di appello per riascoltare il teste in questione.
Peraltro, l’obbligo di rinnovazione, deve altresì segnalarsi, ha ad oggetto le sole prove che, sulla base del tenore dell’impugnazione proposta dal Pm, sono state ritenute decisive ai fini della valutazione della responsabilità o meno dell’imputato (per tutte: Corte di cassazione, Sezione III penale, 29 maggio 2020, n. 16444); nel caso in esame l’impugnazione del Pm non ha avuto ad oggetto la rivalutazione di quanto riferito dall’unico teste esaminato, ma esclusivamente il riesame, in diritto, degli elementi, per lo più documentali, acquisiti agli atti nel corso della istruttoria dibattimentale.
Rispetto a tale tipologia di elementi istruttori il disposto di cui all’art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. risulta essere del tutto indifferente.
Di qui la inammissibilità del motivo di ricorso.
Riguardo al secondo ed al terzo motivo di ricorso, con i quali la sentenza censurata è stata impugnata in quanto, per come si sostiene, la stessa non sarebbe motivata adeguatamente in relazione alla affermazione della penale responsabilità dell’attuale ricorrente, osserva la Corte che si tratta di argomenti privi di qualsivoglia pregio.
Il Corciulo, infatti, titolare della impresa che ha provveduto alla realizzazione delle opere edilizie abusive, risponde dei reati contravvenzionali a lui ascritti in forza, rispettivamente, del combinato disposto degli artt. 29 e 44, lett. c), del dPR n. 380 del 2001, il quale sanziona la condotta, fra l’altro, del costruttore di un immobile, quale è quello di cui al capo di imputazione allo stesso contestato, realizzato in assenza di un valido permesso a costruire, nonché, ai sensi degli artt. 110 cod. pen. e 181 del dlgs n. 42 del 2004, del correlato illecito paesaggistico per avere edificato il predetto manufatto, in assenza di un valido nullaosta paesaggistico, in zona sottoposta a vincoli.
In tal senso la motivazione della sentenza redatta dalla Corte salentina, non contraddetta in ordine ai descritti presupposti di fatto, risulta essere pienamente esaustiva, essendo stati in essa forniti tutti gli elementi necessari ai fini della affermazione della penale responsabilità al riguardo del prevenuto in questione, il quale aveva omesso, prima di dare cortso alle opere da lui realizzate, di verificare che le. stesse fossero state regolarmente assentite dagli organi pubblici a ciò preposti.
Venendo ora al tema, come già accennato, comune anche ad altri ricorrenti, riguardante il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, si osserva, trattando congiuntamente tutte le doglianze formulate al riguardo, che i ricorrenti Mariano Eleno e Mariano Cosimo, oltre a stigmatizzare la stringatezza della motivazione della sentenza in relazione alla esclusione delle attenuanti generiche, hanno segnalato che, invece, il carattere complesso e controverso delle questioni dibattute nonché l’esistenza di una prassi presso i Comuni salentini nel senso seguito dai ricorrenti avrebbe giustificato il riconoscimento del beneficio.
Il ricorrente Ricciardi, a sua volta, basa la propria doglianza sulla “caleidoscopica connotazione delle variegate e molteplici questioni giuridiche sottese al caso di specie”, unita ad una certa incertezza giurisprudenziale in materia ed alla esistenza della già segnalata prassi amministrativa.
Infine, il ricorrente Corciulo, compendiati in sostanza gli argomenti svolti dai precedenti ricorrenti, ha anche fatto riferimento, come fattore atto a giustificare la concessione in suo favore delle attenuanti generiche, il ruolo marginale dallo stesso svolto nella vicenda, compiutosi esclusivamente nella fase terminale di essa.
Si tratta di censure non concludenti.
Infatti, quanto ai due Mariano, si rileva (e l’argomento vale a confutare sul punto le analoghe tesi di tutti i ricorrenti) che, per un verso la motivazione della sentenza, sul punto ora controverso, è sviluppata in relazione alla obbiettiva gravità delle condotte, consistite non solo nella realizzazione dell’abuso edilizio, di per sé non di marginale rilevanza (si parla infatti di un manufatto di oltre 150 mc) ma anche nella consapevole creazione di un atto ideologicamente falso, in quanto volto a rappresentare, abusando di mezzi giuridici altrimenti leciti, una realtà diversa da quella esistente, in tal modo evidenziandosi una particolare intensità dell’elemento soggettivo sotteso alle condotte colpose; laddove le doglianze formulate dai due ricorrenti si riferiscono ad una incertezza della disciplina che, in realtà, non è emersa ed alla esistenza di una prassi che, come già accennato, per essere contra legem non era idonea a fondare alcun beneficio in favore di chi su di essa abbia fatto affidamento.
I medesimi argomenti valgono ad escludere la rilevanza delle tesi sul punto svolte anche dal ricorrente Ricciardi, mentre, per ciò che attiene al ricorrente Corciulo, oltre agli argomenti già illustrati, si rileva che la circostanza che egli abbia svolto solo le mansioni di materiale costruttore delle opere edificatorie oggetto di contestazione, non vale certamente a consentire l’affermazione che il suo ruolo sia stato assolutamente marginale, avendo egli dato un contributo determinante e centrale alla commissione del reato, svolgendo una mansione, quella dell’esecutore materiale dell’illecito (o almeno di una considerevole parte di esso) non facilmente sostituibile.
Le censure riguardanti il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche sono, pertanto, tutte inammissibili.
Riprendendo, a questo punto l’esame del ricorso presentato dall’imputato Corciulo, rileva il Collegio che anche il quinto motivo di impugnazione dallo stesso proposto è inammissibile; con esso, infatti, il ricorrente rivendica l’avvenuta estinzione dei reati a lui contestati per intervenuta prescrizione, essendo questa maturata, secondo la stessa prospettazione sviluppata dal ricorrente in data 25 settembre 2019, cioè nelle more fra la pronunzia della sentenza di appello e la proposizione da parte sua del ricorso di fronte a questa Corte.
Considerato che nessuno dei motivi di ricorso dal prevenuto formulati è ammissibile e, pertanto, idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale, risulta del tutto evidente che l’astratto maturare del termine prescrizionale dei reati contestati dopo la pronunzia della sentenza di appello (cioè dopo la definitività dell’affermazione della sua penale responsabilità i cui effetti, stante la inammissibilità della presente impugnazione, devono essere fatti risalire sino alla pronunzia della sentenza della Corte di Lecce) è fattore irrilevante ai fini delle estinzione dei reati stessi.
Non rimane che esaminare il ricorso dell’imputato Tedoldi, cioè del soggetto che è subentrato nella titolarità del manufatto nel corso della sua edificazione.
Il ricorrente lamenta che la sentenza della Corte di appello salentina, con la quale è stata totalmente ribaltata la precedente decisione presa dal Tribunale di Lecce, non presenti quella motivazione rafforzata che le sarebbe stata necessaria per superare la forza persuasiva della sentenza assolutoria di primo grado.
Il motivo è anch’esso privo di effettiva consistenza; ed infatti, sebbene sia indubbiamente vero che la sentenza di appello con la quale viene riformata la sentenza di primo grado debba essere fornita di una cosiddetta “motivazione rafforzata” in quanto non è sufficiente che attraverso di essa sia dimostrata, attraverso l’esame degli istituti di diritto sostanziale e processuale coinvolti, la bontà della tesi fatta propria dal giudice del gravame ma è, altresì, necessario che sia data adeguata dimostrazione, anche in forma implicita, della priorità argomentativa della motivazione d’appello rispetto a quella di primo grado (sulla nozione di “motivazione rafforzata” si veda, da ultimo in ordine di tempo: Corte di cassazione, Sezione VI penale, 23 dicembre 2019, n. 51898).
Deve, peraltro, considerarsi che l’intensità dello sforzo dimostrativo che deve essere applicato dal giudice del gravame deve intendersi essere direttamente proporzionale al coefficiente di approfondimento argomentativo che caratterizza la sentenza di primo grado
Nel caso ora in esame la motivazione della sentenza del Tribunale, allegata dallo stesso ricorrente, pur avendo dato atto della circostanza che i due fondi oggetto della cessione di cubatura erano fra loro distanti ben 4 km, motiva in punto di assoluzione con la sola seguente autoreferenziale frase, priva di qualunque riscontro, omissiva di ogni altra considerazione in ordine alla effettiva esistenza degli elementi necessari per la corretta applicazione dell’istituto di fonte negoziale della cessione di cubatura e palesemente in contraddizione con precedente indicato dato di fatto: “ Alla luce della normativa vigente, così come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità, deve ritenersi la piena legittimità del permesso a costruire di cui all’imputazione, essendo intervenuto mediante il meccanismo della cessione di cubatura con asservimento di fondi non distanti, omogenei, caratterizzati dal medesimo indice di fabbricabilità”.
A fronte di tale sbrigativa motivazione, la ampia esposizione dei motivi per cui la Corte di appello ha ritenuto di disattendere la decisione del giudice di primo grado, rende pienamente comprensibili sia i motivi propri della decisione da essa assunta sia le ragioni per discostarsi dalla precedente sentenza.
Con riferimento al secondo motivo di impugnazione, con il quale è stata contestata la possibilità di qualificare come illegittimo l’asservimento di volumetria realizzato in assenza di una puntuale disciplina normativa che regoli l’istituto, si osserva che – al di là del fatto che, sia pure attraverso fonti giurisprudenziali, sino al suo riconoscimento legislativo intervenuto per effetto della entrata in vigore del decreto-legge n. 70 del 2011, convertito con modificazioni, con legge n. 106 del 2011, che, all’art. 5, comma 3, ha previsto l’inserimento nell’art. 2643 cod. civ. di un numero 2-bis, il quale, a sua volta, ha introdotto la trascrivibilità dei “contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori”, la figura della cessione di cubatura aveva già trovato una sua solida e stabile regolamentazione, i cui contenuti costituiscono oramai jus receptum – nel caso in esame la illiceità del permesso a costruire, ed alla sua variante, in base al quale il Tedoldi ha proseguito la realizzazione dell’immobile per cui è processo successivamente all’acquisto di esso da parte sua, non è conseguenza dell’applicazione della predetta figura giuridica ma del fatto, ad essa estraneo, che per ottenere l’originario titolo edificatorio derivante da tale applicazione, le parti, anteriormente alla acquisizione del manufatto ad opera del Tedoldi, hanno mendacemente attestato determinati dati di fatto, in tal modo falsificando il vero.
E di tale falsificazione il Tedoldi si è consapevolmente giovato.
Siffatta consapevolezza, quella cioè della diversità rispetto al vero dello stato di fatto rappresentato agli organi pubblici onde ottenere il permesso a costruire illecito, comporta, quanto al reato edilizio contestato al prevenuto, la integrazione dell’elemento soggettivo costitutivo di esso.
Infine, riguardo all’ultimo motivo di impugnazione, avente ad oggetto il vizio da cui sarebbe affetta la sentenza impugnata nella parte in cui è stata fatta derivare la responsabilità del Tedoldi per il reato paesaggistico da quella concernente l’illecito di carattere specificamente edilizio, si richiamano, in quanto risolutivamente pertinenti, le considerazioni in base alle quali già è stata rilevata la inammissibilità, data la sua manifesta infondatezza, dell’analoga censura – si trattava del quarto motivo di ricorso secondo l’ordine della loro formulazione – al proposito dedotta dall’imputato Ricciardi.
In definitiva tutti i ricorsi devono essere dichiarati inammissibile ed i ricorrenti, visto l’art. 616 cod. proc. pen. devono essere condannati al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
PQM
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 22 settembre 2020
FONTE: https://gruppodinterventogiuridicoweb.com/2021/02/04/lautorizzazione-paesaggistica-falsa/
(foto S.D., archivio GrIG)
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