gennaio 2017: un intervento di Massimo Quaini
Genova. Anche se nessuno ne parla, il problema urbanistico oggi più grande riguarda il territorio della Città metropolitana e in particolare l’esigenza di riconnettere, non attraverso nuove infrastrutture ma culturalmente, Genova al suo territorio. Questa riconsiderazione territorialista deve partire dalle condizioni di un paese fragile, esposto a una serie senza fine di calamità sulle quali tutti, amministratori e cittadini, devono riflettere di più per riconvertire il loro sguardo.
Ciò che abbiamo avuto, e continueremo purtroppo ad avere sotto i nostri occhi è un insieme di fenomeni che per essere valutati sensatamente dovremmo definire la ribellione del territorio-ambiente. Che cosa sta infatti accadendo? L’ambiente nella sua stessa elementarità fisica – tutti ci ricordiamo i famosi elementi di Talete: acqua, aria, terra, fuoco – si sta rivoltando contro di noi. Il territorio, le abitazioni prima ancora dei campi, delle fabbriche e delle strade, sono sempre di più in preda al fuoco, all’acqua trasformata in alluvioni (altrove in muri di neve e valanghe), alle frane e terremoti, alla cattiva qualità dell’aria e a dinamiche meteorologiche sempre più disastrose.
Questa elementarità naturale produce l’idea che stiamo andando incontro a una serie sempre più numerosa di eventi fatali, ineluttabili, su cui gli uomini, per quanti sforzi facciano, possono poco, possono sempre meno, malgrado i progressi della tecnica e dell’organizzazione. Il paradosso è che, se da un lato siamo portati a pensare che una tecnologia sempre più sofisticata e una memoria e consapevolezza, cresciute attraverso tante prove e anche lutti, potrebbero difenderci dalle calamità, dall’altro all’accadere di ogni nuovo evento ci scopriamo in realtà più fragili e indifesi.
Nella nostra città accade che due piromani, qualche operaio disattento, la scarsa manutenzione degli elettrodotti o ancora qualche giornata di vento forte possano mettere in ginocchio una città e le sue maggiori infrastrutture. Con distruzioni impensabili, fino a ieri, come sono state quelle dei parchi di Nervi e di Pegli. Questa elementarità naturale produttrice di fatalità ci impedisce di valutare le trasformazioni in corso e di riconvertire il nostro sguardo sul territorio e sulla valorizzazione del patrimonio diffuso che gli eventi stanno erodendo senza sosta.
Ciò che sta accedendo nell’Appennino centrale e in Abruzzo deve essere una lezione per tutti. Le nevicate diventano emergenze che isolano migliaia di abitanti perché non esistono più i presidi delle Comunità montane e delle Province. Se le genti sopravvivono a lunghi periodi di isolamento è perché non hanno ancora del tutto rinunciato alle difese spontanee dei loro padri e nonni. Ma i morti ci sono ugualmente, i danni e le distruzioni anche. A medio e lungo termine, le conseguenze certe sono che anche i territori non colpiti dal terremoto saranno abbandonati dalla popolazione eroica che ancora li abita. Si perderà un patrimonio territoriale e agricolo straordinario, si accresceranno i deserti, gli spazi incolti e le boscaglie destinate a incendiarsi e a portare distruzioni sulle città più prossime, essendo la natura stessa ormai incapace di dare stabilità al suolo.
Perché tutto questo sta accadendo? Chi è in grado di spiegarlo ai cittadini? Evidentemente non i vertici della Protezione civile che non sembrano in grado di valutare la gravità e l’estensione dei fenomeni che stanno accadendo, se ogni volta si mostrano impreparati e si deve sempre compensare con l’abnegazione dei vigili del fuoco e dei volontari. La cattiva gestione del territorio non sta soltanto nella ben nota mancanza di cultura della prevenzione, ma sta anche nella natura gerarchica, verticistica di una Protezione civile che per essere efficace dovrebbe essere ricostruita dal basso, dal livello comunale, mettendo il sindaco in grado di agire e la popolazione in grado di sapere come muoversi e mettere le proprie conoscenze territoriali a servizio della comunità.
Qualche anno fa sono stato relatore di una tesi di dottorato sui piani di protezione civile e mi sono reso conto di quanto questo anello necessario, strategico, sia debole nel nostro paese e anche quanto sia utile recuperare a livello diffuso la conoscenza del territorio e i saperi ecologici locali che la popolazione non ha perduto del tutto. Leggo che l’Università intende mettere in cantiere una laurea in Protezione civile, mi auguro che si muova in questa prospettiva.
La ribellione dell’ambiente, le catastrofi, che non sono mai naturali, si combattono infatti con la conoscenza del territorio, con la “coscienza di stagione e di luogo” come una volta ebbe a dire Fritjof Capra o con la “coscienza di luogo” di cui ci ha spesso parlato un economista anomalo come Giacomo Becattini, scomparso in questi giorni.
A riconoscere quanto questi saperi siano oggi necessari e debbano essere insegnati nelle scuole, non possono essere i responsabili nazionali della Protezione civile (troppo sicuri di una scienza che prescinde dai territori locali) e tanto meno i ministri e funzionari della pubblica istruzione, che in questi anni hanno sempre più ridotto le ore di geografia e delle materie che concorrono a dare ai futuri cittadini il senso di una comunità e di un patrimonio culturale e anche economico locale che non va disperso.
Se i politici che fanno le leggi conoscessero meglio la geografia del nostro paese non avrebbero abolito, dopo le Comunità montane, anche le Province: le uniche istituzioni che curavano il territorio profondo, quello più lontano dalle città maggiori e dalle aree forti. Se i vertici della Protezione civile conoscessero meglio la geografia del nostro paese forse non avrebbero concentrato i loro sforzi nei centri maggiori e non avrebbero sottovalutato i rischi in cui si sono trovate le popolazioni che vivono nelle frazioni e nelle sedi rurali sparse.
Spiace dirlo, ma maggiore conoscenza e saggezza di costoro ha dimostrato un giovane scrittore, Paolo Cognetti, che conosce bene la montagna e richiesto di un commento da un giornale ha concluso: “Penso che i morti di Ricopiano siano l’ultima conferma, in Italia, di un rapporto compromesso tra l’uomo e il territorio. Un rapporto di solo sfruttamento e non di conoscenza. Qualcosa si è rotto, anni fa, tra noi, i luoghi che abitiamo e la memoria di chi li abitava prima. Ricostruire quel rapporto sarà un’impresa”.
Ma è da questa impresa, da questa sfida che si deve ripartire.
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