agosto 17, 2016
Medicina Democratica Onlus esprime profondo sconcerto e totale disaccordo sul documento della Società Italiana di Igienisti (SItI) a supporto dell’incenerimento dei rifiuti, attraverso impianti di terza generazione, posizione condivisa anche dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS). Le nostre osservazioni si limitano a quanto riportato dall’Agenzia ADN kronos[1], poiché i documenti non sono disponibili sui siti ufficiali. Vengono presentate “7 verità scientifiche”, in modo dogmatico, senza motivazioni solide o riferimenti bibliografici che le possano sostenere
Si riportano di seguito le “7 verità” e l’analisi critica di Medicina Democratica. comunicato siti agosto 2016
1) Le discariche “inquinano l’ambiente più degli inceneritori” e questi ultimi “non provocano rischi sanitari acuti e cronici per chi vive in prossimità degli impianti”
Gli inceneritori (anche di terza generazione) non eliminano i rifiuti, ma li trasformano in emissioni, ricche di un variegato cocktail di inquinanti, i residui (scorie pesanti e leggere) sono pari a circa il 30% in peso dei rifiuti in ingresso. Le discariche di servizio sono necessarie anche per gli inceneritori, questi ultimi creano residui che non ci sarebbero senza la combustione dei rifiuti. Le ceneri leggere sono estremamente tossiche in quanto residuano dai filtri e dai processi di abbattimento dei fumi, devono essere conferite a discariche speciali o alla “tombazione” in miniere dismesse. È pertanto fuorviante parlare di discariche in modo generico: una discarica che accoglie le scorie e le ceneri degli inceneritori sarà notevolmente impattante (ma senza un inceneritore alle spalle non ci sarebbe); una discarica ricca di rifiuto organico produrrà biogas inquinante ed aereosol con impatto microbiologico; una discarica a valle di una raccolta differenziata di elevata qualità, smaltisce materiali pressocchè inerti e in quantità ridotte, è privata della frazione organica e ha un bassa produzione di patogeni microbiologici, di percolato e biogas. Per quanto riguarda i rischi sanitari connessi con l’incenerimento si rimanda al punto 3).
2) La gestione del complesso ciclo dei rifiuti solidi urbani prevede azioni integrate con raccolta differenziata, contenimento nella produzione dei rifiuti e attività educative. Ma – avverte la Siti – non si può prescindere dalla disponibilità di termovalorizzatori di ultima generazione che possono portare a un bilancio energetico complessivo positivo, con produzione di energia e sistemi di teleriscaldamento come accade virtuosamente da anni in città come Brescia, Lecco e Bolzano.
Dal punto di vista energetico, le migliori tecnologie disponibili consentono di raggiungere un rendimento pari al 40% dell’energia associata ai rifiuti combusti. Questo risultato si può ottenere solo attraverso un uso efficiente del teleriscaldamento, ovvero sfruttando il calore di scarto, opzione che si realizza molto raramente (di fatto solo nei casi citati da SItI e poco più) perché è necessaria la compresenza di domanda e di offerta. Inoltre, le reti di distribuzione sono molto costose e impattanti, perché richiedono tagli nella rete stradale e predisposizioni in tutte le abitazioni. Il rendimento complessivo e l’aspetto economico solo in condizioni urbanistiche particolari sono interessanti per la singola utenza domestica.
Il bilancio energetico è tutt’altro che ottimale, se confrontato con il riciclo (recupero di materia). Secondo i dati della EPA[2] – a parità di composizione – l’energia risparmiata con il riciclo è da due a sei volte superiore a quella “recuperata” con l’incenerimento.
Gli inceneritori sono impianti rigidi che richiedono una quantità di rifiuti costante e continua per molto tempo (20-30 anni). Costruendo un inceneritore, si ipoteca il futuro obbligandosi a rendere disponibili elevate quantità di rifiuti, un’opzione che contrasta le politiche di uso razionale delle risorse e i trend degli ultimi anni che hanno visto una drastica riduzione della la quota di materiali non riciclabili immessa a consumo con le merci. Questa rigidità favorisce operazioni quali l’assimilazione dei rifiuti speciali (prodotti da utenze commerciali e produttive) ai rifiuti urbani. In Emilia-Romagna, ad esempio, l’assimilazione di rifiuti non pericolosi è molto diffusa, la normativa prevede invece che i rifiuti speciali siano gestiti a mercato libero e sono per la massima parte facilmente riciclabili.
Le politiche della comunità europea, al contrario, sono orientate all’economia circolare, perché i vantaggi sopra citati si traducono anche in vantaggi economici. Secondo gli studi della UE, un uso più efficiente delle risorse lungo l’intera catena produttiva potrebbe ridurre il fabbisogno di fattori produttivi materiali del 17%-24% entro il 2030, con risparmi per l’industria europea dell’ordine di 630 miliardi di euro l’anno. Bruciare i materiali contenuti nei rifiuti significa dover estrarre nuove materie prime per produrre nuove merci (magari “usa e getta”) con un impatto ambientale che non è limitato al singolo impianto di incenerimento ma che percorre tutta la filiera produttiva, dall’estrazione, alla trasformazione, alla commercializzazione delle merci e si riattiva ad ogni accensione.
3) Lo studio epidemiologico Moniter – ricordano gli esperti – condotto dalla Regione Emilia Romagna con l’apporto di scienziati internazionali, è una delle più sofisticate ricerche al mondo sul rischio connesso alle emissioni di inceneritori. Questo lavoro evidenzia chiaramente la assenza di rilevanti rischi sanitari acuti e cronici per chi vive in prossimità degli impianti.
Questa affermazione appare davvero paradossale, poiché lo studio dimostra chiaramente il contrario. Ricordiamo che lo studio venne condotto dopo gli allarmanti risultati emersi dall’indagine sugli inceneritori di Forlì (Valutazione dello stato di salute della popolazione residente nell’area di Coriano (Forlì) studio condotto nell’ambito del progetto “Environmental health surveillance system in urban areas near incinerators and industrial premises / ENHANCE HEALTH”[3]), risultati che indussero la Federazione dell’Ordine Dei Medici dell’Emilia Romagna (FRER) a chiedere una moratoria su questi impianti. Medicina Democratica, durante il proprio congresso del 2012 aveva formulato diverse osservazioni sul metodo adottato e sulla interpretazione dei risultati. Le principali osservazioni riguardavano la scelta del marker dell’esposizione e l’area analizzata: Moniter ha considerato esclusivamente PM10 (e non particolato ultra fine nè matrici vegetali o animali) ed è stato condotto sulla popolazione residente entro solo 4 km dagli 8 impianti dell’Emilia-Romagna. Siamo ancora in attesa delle repliche che il Comitato Scientifico del Moniter si era impegnato a fornire come risulta dal verbale della seduta del 16.03.2012.
Gli unici risultati dello studio Moniter (costato ben 3 milioni e 400.000 euro di soldi pubblici) pubblicati su riviste internazionali (Candela S et al, Epidemiology 2013;24:863) e (Candela S et al, Environ Int, 2015. 78:51) mostrano una associazione positiva e statisticamente significativa del rischio di nascite pre-termine e abortività spontanea con l’esposizione alle emissioni degli impianti. Risultati in netto contrasto con l’affermazione della SITI circa una ”assenza di rilevanti rischi sanitari acuti e cronici per chi vive in prossimità degli impianti”. Inoltre, dallo studio Moniter, sono emersi incrementi di: mortalità per tumori di fegato e vescica negli uomini, incidenza di tumori del pancreas negli uomini, mortalità per cancro del colon nelle donne e per i linfomi non-Hodgkin in entrambi i sessi nella coorte di Modena. Oltre a patologie tumorali, aborti spontanei e nascite pre-termine (di cui si è già detto), lo studio Moniter ha documentato anche associazioni statisticamente significative con aumento di rischio di malattie ischemiche cardiache e di mortalità per malattie cardiocircolatorie nelle femmine, aumento di rischio di mortalità per malattie respiratorie acute nelle femmine, andamento crescente del rischio di malformazioni nel loro complesso con l’aumentare dell’esposizione. Risultati tutti coerenti con altre pubblicazioni scientifiche nazionali ed internazionali. E’ davvero sconvolgente constatare lo stravolgimento che viene operato dei risultati di questo studio. Quanto al fatto che gli inceneritori “non provocano rischi sanitari acuti e cronici per chi vive in prossimità degli impianti” segnaliamo che sono numerosi gli studi scientifici che dimostrano esattamente il contrario e descrivono effetti sia a breve (esiti riproduttivi, malformazioni, esiti cardiovascolari, respiratori) che a lungo termine ( soprattutto tumori). E’ vero che per la gran parte (ma non per la totalità) si tratta di studi che riguardano impianti di “vecchia generazione”, ma dove sono studi epidemiologici che valutano gli effetti a lungo termine degli inceneritori di “nuova” generazione?
Il nuovo inceneritore di Case Passerini – che si vorrebbe costruire nella piana fiorentina – potrà emettere ogni ora 170.000 Nm3 di fumi e annualmente (in assenza di incidenti/ malfunzionamenti ed altro) potrà immettere in atmosfera 6,7 tonnellate di Particolato Totale Sospeso (PTS), 94,2 t di NO2, 67,3 t di CO, nonché 134,6 kg di Hg, idem di Cadmio e Tallio, 13,5 kg di IPA, nonché 135 mg di diossine. Chi può in coscienza affermare oggi che un cocktail di inquinanti di simile entità sia ininfluente per la salute di una popolazione che vive in un area già fortemente critica?
Il fatto che trattandosi di impianti di terza generazione i rischi per la salute saranno minori è tutto da dimostrare: intanto la taglia degli impianti è notevolmente più elevata (e quindi maggiore la quota di fumi emessa) e una volta costruiti questi impianti non solo devono bruciare per molto tempo, ma anche per quantità ben superiori a quelle inizialmente indicate (la “saturazione del carico termico” che inizialmente viene nascosta dalla autorizzazione). L’inceneritore di Brescia, progettato per 200.000 t/anno, ora ne brucia più di 800.000. Inoltre, anche se i “moderni” inceneritori applicano le migliori tecnologie disponibili, dette BAT (Best Available Tecnology), rimangono tuttora aperti numerosi aspetti critici, legati alle caratteristiche dei sistemi di abbattimento, alla composizione dei rifiuti ammessi all’inceneritore, al controllo delle fasi critiche di accensione e spegnimento durante le quali i processi di combustione – e di conseguenza le emissioni – sono difficilmente controllabili. Sono numerosi gli esempi di impianti con gravi criticità e sotto inchiesta della Magistratura, ad esempio, per sforamenti di diossina. Le rassicurazioni fornite appaiono quindi davvero inappropriate, se non altro per il semplice fatto che mancano studi epidemiologici, come già riportava un documento del 2009 dell’Associazione Italiana di Epidemiologia: “A causa del poco tempo trascorso dall’ introduzione delle nuove tecnologie d’incenerimento e a causa delle difficoltà di condurre studi di dimensioni sufficientemente grandi da rilevare eventuali effetti delle nuove concentrazioni dei tossici emessi, non sono ad oggi disponibili evidenze chiare di rischio legato agli impianti di nuova costruzione.”
4) Secondo la SItI il trasporto a lunga distanza dei rifiuti (o anche all’estero, come accaduto a Napoli) ha costi maggiori e un impatto ambientale negativo legato alle emissioni dei mezzi di trasporto, fatto quasi mai considerato;
Le analisi di ciclo di vita dei sistemi industriali (LCA) considerano anche il trasporto e la sua incidenza negativa in termini economici e ambientali. D’altra parte, all’uso diffuso di inceneritori, è associato il trasporto di grandi quantità di materiali tossici (ceneri e polverino) in discariche, spesso poste a centinaia o migliaia di chilometri dagli impianti di incenerimento. La soluzione più razionale per ridurre il trasporto di rifiuti è la raccolta differenziata di qualità e la realizzazione di una rete diffusa di impianti di recupero e selezione.
Indirizzi, completamente disattesi dalle politiche nazionali che prevedono, al contrario, un sistema impiantistico basato esclusivamente su inceneritori (art. 35, Decreto “Sblocca Italia”), e incentivi agli inceneritori con recupero energetico per un valore complessivo di oltre 500 milioni di euro. Un valore economico superiore ai corrispettivi erogati dal CONAI per la raccolta differenziata degli imballaggi, pagato dai cittadini con la bolletta elettrica.
5) E’ fondamentale una strategia di lungo periodo, logicamente su base regionale o interregionale, per evitare emergenze come quella attuale o come quelle multiple viste in Campania – sottolineano gli esperti – tali azioni devono essere accompagnate da corrette informazioni ai cittadini a cominciare dalle scuole, educazione della popolazione alla raccolta differenziata, controlli e misure repressive dove necessarie e un impegno delle istituzioni per evitare inutili strumentalizzazioni.
Ovviamente si tratta di scelte politiche che non vengono fatte e che anzi mortificano i comportamenti virtuosi dei cittadini. Perché i 500 milioni di euro che ogni anno arrivano agli inceneritori non sono utilizzati per promuovere raccolte differenziate di qualità e impianti di recupero e riciclo? Anche lo stesso Comitato Scientifico che ha supervisionato lo studio Moniter, nelle proprie “Osservazioni” sui risultati, non mancava di raccomandare “l’adozione di politiche di gestione rifiuti che non creino ulteriore domanda di incenerimento, in linea con la gerarchia europea dei rifiuti e con generali considerazioni di sostenibilità”. Perché si continua a fare esattamente il contrario e ora lo si sostiene con risibili e generiche motivazioni?
6) I rifiuti accumulati per strada sono uno spettacolo indecente e un segnale di degrado urbano che non vorremmo mai vedere. Non sono però documentate – avvertono gli specialisti – emergenze sanitarie particolari, come epidemie o rischi infettivi, come qualcuno ha paventato in questi giorni La SItI ci ricorda che i rifiuti accumulati per strada sono uno spettacolo indecente e segnale di degrado urbano. Certamente! Tutti sappiamo però che le cause sono imputabili in larga parte a mala gestione, ma anche a intervento delle diverse “mafie” (presenti nell’intero ciclo dei rifiuti, dalle discariche, al trasporto, all’incenerimento etc.). Un degrado che è peraltro favorito dal sistema di raccolta a “cassonetto stradale” in luogo del ben più performante sistema “porta a porta” che, se correttamente condotto, riduce drasticamente i conferimenti impropri (inclusi quelli dei rifiuti non urbani ma speciali da attività produttive). E’ importante che la scelta della modalità sia condivisa e partecipata con gli utenti e non solo l’applicazione di decisioni del gestore e dell’ente locale, non necessita solo l’educazione ma anche la partecipazione.
7) La teoria dei rifiuti zero è illusionistica ma è un falso mito, non solo perché di fatto inattuabile ma per la dimostrazione che le raccolte differenziate oltre una certa soglia (attorno al 60%) rischiano di non essere efficaci. In tanti predicano la raccolta differenziata – conclude la Siti – ma in pochi dicono che non si sa cosa fare di buona parte del compost prodotto o che la contaminazione di alcune raccolte differenziate con altri materiali (di fatto uno ‘sport nazionale’ come documentano alcuni dati) raddoppia i costi della raccolta e costringe comunque allo smaltimento indifferenziato.
Che la strategia rifiuti zero sia un falso mito è un’opinione di SItI non motivata e non condivisa da eminenti personalità del settore rifiuti e in ambito di Commissione Europea[4] ; certo è che, come il nome “rifiuti zero” dovrebbe suggerire, non si tratta di una strategia limitata alla gestione dei rifiuti una volta prodotti, ma abbraccia una visione più ampia sull’intero sistema produttivo delle merci e coinvolgendo i produttori mediante la “responsabilità estesa” (ad esempio per i rifiuti elettrici ed elettronici).
Per quanto riguarda la raccolta differenziata, invece, non si tratta di una predica di qualche santone antinceneritorista, ma di un obbligo di legge; raccolte differenziate ben oltre il 60 %, prossime agli obiettivi di rifiuti zero, vengono attuate in ampi territori italiani con successo e con costi più contenuti del “sistema integrato”.
Per quanto riguarda il compost, è notorio che non si può produrre un compost di qualità con il solo rifiuto organico domestico; solo gli impianti che lo processano adeguatamente riescono a produrre un compost di qualità che trova impiego. Se fosse lecito rifiutare tutta la tecnologia generalizzando sulla base del malfunzionamento di qualche impianto, allora tale principio andrebbe adottato impianti di incenerimento che vengono spenti e riaccesi in continuazione perché non funzionano, che hanno tinto di violetto con i loro fumi i nostri cieli, che hanno superato e continuano a superare i limiti di emissione, che sono stati chiusi dalla magistratura per violazione delle norme o che addirittura avevano gli strumenti di monitoraggio “taroccati”, e via dicendo. Anche sugli impianti di compostaggio potremmo ripetere quanto già espresso più volte: se gli enormi incentivi sperperati sugli inceneritori fossero stati dati a questi impianti forse oggi avremmo oggi una terza generazione di impianti di compostaggio in grado di produrre ottimo compost.
D’altra parte, lo stesso ISS nel febbraio 2014 così dichiarava: “Per quanto attiene lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, un significativo guadagno in salute per le popolazioni residenti in prossimità di discariche e inceneritori può essere ottenuto attraverso la riduzione del 10% dei rifiuti prodotti, l’innalzamento al 70% della raccolta differenziata e del compostaggio e il divieto di conferimento in discarica del rifiuto indifferenziato tal quale”.
Infine, per quanto riguarda la contaminazione della raccolta differenziata citata gli scriventi sembrano non essere a conoscenza che in massima parte non si tratta di contaminazione con materiali di diversa composizione, ma si tratta di materiali di diversa classificazione merceologica: negli impianti che accolgono le plastiche o il vetro, ad esempio, vengono selezionate e scartate con destinazione discarica o incenerimento tutti i rifiuti pur di plastica o di vetro che non appartengono alla categoria imballaggi, in quanto il CONAI riconosce solo questi (e ciò fa emergere i limiti del sistema attuale basato sui consorzi). Ciò non succede con il Comieco (raccolta di carta/cartone). Il fatto che gli scriventi evidentemente siano ignari di questo aspetto ci fa supporre che anch’essi pratichino lo stesso sport che sembrano biasimare.
In conclusione, con grande rammarico si prende atto che nel nostro paese non viene programmata un’azione strutturale per la corretta gestione dei rifiuti. Crediamo che gli igienisti della SItI non abbiano ben chiare le direttive EU in tema di gestione di rifiuti che pongono il recupero di materia prioritario rispetto al recupero di energia e che indicano nell’economia circolare la strada maestra per la tutela non solo delle risorse, ma dell’ambiente e della salute. Abbiamo l’impressione che i giudizi riportati siano quanto meno affrettati e poco degni di una società che si definisce “scientifica”. Peraltro è solo in virtù della pressione popolare che in Italia, nel 1992, l’amianto è stato vietato, se fosse stato per considerazioni come quelle di SItI sugli inceneritori, lo produrremmo ancora, con qualche filtro in più…
Il Direttivo di Medicina Democratica Onlus, 17 agosto 2016
[1]http://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2016/08/13/rifiuti-igienisti-discariche-inquinano-piu-degli-inceneritori_BSbCs6TbFsd2qJd1UqbeHJ.html?refresh_ce
[2] Agenzia ambientale del governo USA, https://www3.epa.gov/climatechange/wycd/waste/downloads/execsum.pdf
[3] http://www.arpae.it/cms3/documenti/_cerca_doc/rifiuti/inceneritori/enh_relazione_finale.pdf
[4] COM(2014)398/F1 ENV (DG Environment) 02/07/2014 COMMUNICATION FROM THE COMMISSION TO THE EUROPEAN PARLIAMENT, THE COUNCIL, THE EUROPEAN ECONOMIC AND SOCIAL COMMITTEE AND THE COMMITTEE OF THE REGIONS Towards a circular economy: A zero waste programme for Europe
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