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martedì 3 novembre 2015

Il progetto di legge del governo non ferma il consumo del suolo, rilancia la speculazione

  di Vezio De Lucia   02 Novembre 2015 per Eddyburg

Ancora una volta, una puntuale analisi di una legge applaudita da tutti i verdi, verdastri, verdagnoli. Evidentemente senza averla letta con attenzione e fidandosi delle buone intenzioni.  Speriamo leggano adesso. Con postilla contenente il testo del ddl C2039


Nell’aula di Montecitorio sta per cominciare la discussione sul progetto di legge governativo per il contenimento del consumo del suolo (C. 2039). La prima proposta era stata presentata dal ministro delle Politiche agricole del governo Monti, Mario Catania, tre anni fa, nel novembre del 2012. Da allora ci sono stati due cambi di governo (Letta e Renzi), mentre la proposta di legge è rimasta sostanzialmente ferma nelle commissioni riunite VIII e XIII della Camera. Solo recentemente ha subito un’accelerazione, insieme a un vistoso peggioramento.

Comincio ricordando il percorso in tre atti che dovrebbe portare al contenimento del consumo del suolo (il traguardo è quello fissato dall’Unione europea di un consumo del suolo = 0 entro il 2050):

Un percorso in tre atti (impuri)


1. con decreto del ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali, di concerto con i ministri dell’Ambiente, dei Beni Culturali e delle Infrastrutture e trasporti, avendo acquisito il parere della conferenza Stato Regioni è definita la “riduzione progressiva vincolante, in termini quantitativi, di consumo del suolo a livello nazionale” (art. 3, c. 1); 
2. la riduzione nazionale è in seguito ripartita fra le Regioni con deliberazione della Conferenza unificata (art. 3, c. 5);

3. il terzo atto riguarda la riduzione del consumo di suolo dalla scala regionale a quella comunale, il che avviene con provvedimento delle Regioni e delle Province autonome (art. 3, c. 8).

Come si vede, è uno di quei meccanismi a cascata – Stato, Regioni, Comuni – che non hanno mai funzionato, figuriamoci in questa circostanza, quando sotto tiro sono quell’immane coacervo di interessi che comprende (per dirla con Valentino Parlato) gli stati maggiori e le fanterie della proprietà fondiaria.

Entrando nel merito, penso che uno scrupoloso ministro delle Politiche agricole possa decretare senza particolari problemi, entro un anno dalla entrata in vigore della legge, di quanto debba essere ridotto il consumo di suolo a livello nazionale. Una decisione che può avere una positiva ricaduta sull’opinione pubblica e non dovrebbe suscitare rilevanti ostilità.

Meno scontata è la decisione della Conferenza unificata che dovrebbe deliberare la ripartizione fra le Regioni del consumo di suolo stabilito a livello nazionale. Prevalendo sicuramente le Regioni più sensibili agli interessi del mondo dell’edilizia, la Conferenza potrebbe non deliberare entro i previsti 180 giorni dal decreto ministeriale. In tal caso dovrebbe intervenire un decreto del presidente del Consiglio, dopo aver acquisito il parere della Conferenza unificata (art. 3, c. 6).

Lo stesso dovrebbe succedere se le Regioni non determinano, entro i successivi 180 giorni, la ripartizione a scala comunale del consumo di suolo stabilito per ciascuna regione. Anche in questo caso, il potere sostitutivo è esercitato dal presidente del Consiglio previo parere della Conferenza unificata (art. 3 c. 9).

Questo è il punto. Per quanto ne so, in materia di politica del territorio, il potere sostitutivo dello Stato ai danni delle Regioni non è mai stato esercitato, basta ricordarsi delle generalizzate e mai sanzionate inadempienze regionali in materia di piani paesistici ex lege Galasso. Per non dire dei piani paesaggistici ex Codice del paesaggio.
Comunque, ammesso anche che il Consiglio dei ministri intervenga per attuare la ripartizione fra le Regioni del consumo di suolo stabilito a livello nazionale, operazione che, in fondo, di per sé, non fa male a nessuno, escludo che nella maggioranza delle Regioni si provveda per tempo a ripartire fra i comuni la riduzione del consumo di suolo fissata a scala regionale. 
Ma ammesso ancora che, un giorno, questo possa succedere, non succederà mai che i comuni più disponibili nei confronti del cemento e dell’asfalto (dal Lazio in giù) provvedano nei tempi previsti a riformare gli strumenti urbanistici per cancellare le espansioni previste. Non c’è bisogno di una gran fantasia per dedurre che la legge non sarà applicata proprio dove sarebbe più necessario e urgente. Oppure – il che è lo stesso – sarà applicata quando non ci sarà più suolo da sottrarre all’edificazione. Mi si può obiettare che la norma transitoria (art. 11) blocca il consumo del suolo per tre anni dall’approvazione della legge. Ma la norma fa salvi opere, interventi, strumenti attuativi e procedimenti (anche solo adottati) che coprono abbondantemente i tre anni di moratoria.

Rigenerazione della speculazione
La proposta non si occupa solo di contenimento del consumo del suolo. Nel recente dibattito nelle commissioni VIII e XIII della Camera sono stati aggiunti altri due preoccupanti argomenti: i compendi agricoli neorurali e la rigenerazione delle aree urbane degradate.

I compendi agricoli neorurali (art. 6), di cui ha scritto su queste pagine (30 gennaio 2015) Cristina Gibelli, sono una micidiale novità che riguarda la possibile trasformazione dell’edilizia rurale in attività amministrative, servizi ludico-ricreativi, turistico-ricettivi, medici, di cura, eccetera. Una legge che nasce dal ministero dell’Agricoltura per “promuovere e tutelare l’attività agricola, il paesaggio e l’ambiente” (art. 1) consente viceversa la distruzione dell’attività agricola e dei relativi insediamenti rurali.

Ancora più inquietante l’altra novità, introdotta nelle ultime settimane, in materia di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate (art. 5). Si tratta di una delega al governo a emanare, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi volti a “semplificare le procedure per gli interventi di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate …”. È una delega in bianco. I principi e criteri direttivi si limitano a richiedere che:
  • · siano garantiti interventi volti “alla rigenerazione delle aree urbanizzate degradate attraverso progetti organici relativi a edifici e spazi pubblici e privati, basati sul riuso del suolo, la riqualificazione, la demolizione, la ricostruzione e la sostituzione degli edifici esistenti, la creazione di aree verdi, pedonalizzate e piste ciclabili, l’inserimento di funzioni pubbliche e private diversificate volte al miglioramento della qualità della vita dei residenti”;
  • · i progetti “garantiscano elevati standard di qualità, minimo impatto ambientale e risparmio energetico, attraverso l’indicazione di precisi obiettivi prestazionali degli edifici, di qualità architettonica perseguita anche attraverso bandi e concorsi rivolti a professionisti con requisiti idonei, di informazione e partecipazione dei cittadini”.
Nella delega al governo non c’è traccia del rapporto che gli interventi di rigenerazione devono avere con la disciplina urbanistica. Si devono rispettare gli standard ambientali ma non quelli urbanistici. Sono esclusi solo i centri storici e i beni vincolati “salvo espressa autorizzazione della competente sovrintendenza” (ci mancherebbe). Non ci sono limiti dimensionali, si possono radere al suolo e rifare intere parti di città e paesi. Non sono richiesti impegni circa l’uso sociale e l’accessibilità. Sono ignorate le Regioni e i relativi poteri in materia. Insomma, non è difficile immaginare che le norme emanate dal decreto legislativo finiranno per costituire un “pacchetto” di criteri in deroga alla strumentazione urbanistica comunale.

Devo aggiungere che le norme dell’art. 5 sulla rigenerazione delle aree urbane degradate (evidentemente aggiunte all’ultimo momento su sollecitazione dei costruttori, che stanno scoprendo il bello del recupero) non sono coordinate con quelle del precedente e preesistente art. 4 sulla priorità del riuso. Che impone alle Regioni di incentivare i comuni a promuovere strategie di rigenerazione urbana mediante l’individuazione di “ambiti urbanistici da sottoporre prioritariamente a interventi di ristrutturazione urbanistica e di rinnovo edilizio”. È appena il caso di aggiungere che gli artt. 4 e 5 sono vere e proprie invasioni nel campo della legislazione urbanistica. Sconcerta che ciò avvenga sotto l’egida del ministero dell’Agricoltura e non mi libero dall’idea che l’autentico obiettivo del legislatore sia il rilancio della più spregiudicata attività edilizia, dentro e fuori il perimetro delle aree urbanizzate: dentro con gli interventi di rigenerazione, fuori con l’invenzione dei “compendi agricoli neorurali”. E che a detto obiettivo sia funzionale la manifesta inconcludenza delle norme relative al contenimento del consumo del suolo.

Infine, a definire il carattere a un tempo pretestuoso e propagandistico della proposta sta il fatto che è stata vergognosamente ignorata la legge urbanistica della Regione Toscana (n. 65/2014).
Una legge, grazie ad Anna Marson, “filosoficamente ecologista”, ha scritto su eddyburg (13 maggio 2015) Ilaria Agostini, che traccia (per mano dei comuni) una linea rossa tra aree urbanizzate e aree rurali, e ne impedisce il superamento: nessun nuovo edificio residenziale né altri interventi che vìolino i principi del grande piano paesaggistico regionale.
L'ultimo testo disponibile del disegno di legge C 2039, sulla base del quale è stato scritto l'articolo é scaricabile qui.  L'argomento è stato trattato su eddyburg con numerosi articoli. Si vedano tra l'altro, i seguenti: gli articoli di Vezio De Lucia del giugno 2013 (Consumo di suolo a un passo dal baratro) e del febbraio 2015 (A partire dalle buone intenzioni del ministro il Parlamento approda a una legge inservibile), di Cristina Gibelli, 20 gennaio 2015 (Neologismi in libertà: «compendi neorurali periurbani)di Eddyburg, febbraio 2015 (Eddyburg e il consumo di suolo), di Ilaria Agostini del maggio 2015 (Due leggi per il suolo).
fonte:  http://www.eddyburg.it/2015/11/il-progetto-di-legge-del-governo-non.html

Con il commento di Sergio Brenna ·
 
De Lucia, che ha vissuto quasi tutte le stagioni dell'urbanistica italiana (la descrizione nel libro "Se questa è una città" del modo in cui, all'indomani della "frana di Agrigento" approdò al gruppo diretto da Martuscelli che al Ministero dei LL. PP. avrebbe poi elaborato il D.M. 1444/68 è un pezzo di letteratura!) ha perfettamente ragione. Io ho cercato, invano, di far pubblicare su riviste accademiche una riflessione intitolata "Smart cities vs town planning?" in cui documentavo, conti alla mano, come nei più decantati piani di rinnovamento urbani milanesi (Citylife, Porta Nuova, ecc.) il ricorso alla metodologia di Valutazione Ambientale Strategica e le vantate innovazioni tecnologiche nella riduzione dei consumi energetici e delle emissioni inquinanti venissero usati per accantonare qualunque criterio di congruità tra quantità edificatorie, quantità di spazi pubblici e altezza degli edifici a favore delle rendite immobiliari attese e della fantasiosa inventività di immagine architettonica che ne occulta la dura prevalenza nella determinazione dei modelli insediativi (edifici necessariamente molto sviluppati in altezza - sino a oltre 200 metri - e che oscurano stabilmente in inverno gli edifici circostanti e preesistenti – e i ridotti spazi pubblici piegati al rutilante consumismo o sostituiti dal verde privato su smisurati balconi privati). I “referees” hanno valutato come nostalgica retrospettiva il mio richiamo ai criteri degli articoli 7 e 8 del D.M. n. 1444/68 il cui integrato disposto può interpretarsi così: “Il progettista urbano di piani attuativi può proporre liberamente tipologie edilizie autonomamente sviluppate in altezza rispetto al contesto solo se gli indici edificatori attribuiti consentono di realizzare totalmente gli spazi pubblici prescritti dal piano generale, altrimenti l'intervento deve ritenersi alla stregua di quelli senza piano attuativo e l'altezza degli edifici deve adeguarsi a quella degli edifici circostanti e preesistenti”. Un criterio semplice e ragionevole che la nuova genìa degli Accordi di programma e dei Programmi Integrati di Intervento ha spesso spazzato via, riportandoci invece alle “convenzioni senza Piano Regolatore” della sciagurata stagione degli Anni '50-'60. La decantata “innovazione” è stata in realtà un vero e proprio “regresso”.
Lo stesso rischia di accadere con l'ideologia del “consumo zero di suolo”: pur di non si consumare nuovo suolo (e, come segnalato, spesso neppure questo è vero), bisogna che sulle aree di "riuso e rinnovamento urbano” si lascino concentrare quantità edificatorie ed altezze stabilite “ad libitum” con i pretesi innovativi criteri del XXI secolo che spazzano via quelli del XX per tornare a quelli del XIX!

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