Malati ancora recuperabili, ma gravi e mal curati. I fiumi italiani versano in cattive condizioni: più ancora dei dati Eurostat, secondo i quali quasi un corso d’acqua su due in Italia ha uno stato ecologico inferiore a “buono”, ce lo dicono in maniera inequivocabile le immagini e le notizie dei giorni scorsi. Corsi d’acqua esondati in mezza Italia, dalla Liguria a Milano, da Parma a Carrara; torrenti che rompono gli argini e invadono case e zone industriali, fango che si riversa nelle strade, in negozi che non riapriranno più, nei piani bassi dei palazzi.
I dati sul dissesto idrogeologico (le aree ad elevata criticità rappresentano il 10% della superficie nazionale e riguardano l’81% dei comuni) e i costi dell’inazione (oltre 60 miliardi di euro i danni stimati dal 1944 al 2012) ormai li sanno anche i muri e gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Ma da dove ha avuto origine questa situazione allarmante? Cosa c’è dietro i fiumi che rompono gli argini travolgendo cose e persone e quelli ridotti a un rivolo incapace di garantire la vita agli ecosistemi acquatici?
Nel 2011, con il rapporto Fiumi d’Italia, il WWF ha censito diversi corsi d’acqua italiani, mettendone in luce le criticità. Prime tra tutti la frammentazione delle competenze e il taglio dei fondi per le opere di gestione dei fiumi. A cui si aggiungono, spiega lo studio,l’artificializzazione dei fiumi, cementificati e depredati delle risorse. “Mali che sono la “canalizzazione” e la diffusa “infrastrutturazione” (sbarramenti, traverse, plateau, piloni per strade, superstrade, autostrade…) della rete idrografica, il consumo e l’impermeabilizzazione dei suoli che dovrebbero essere lasciati all’esondazione naturale, la continua distruzione della vegetazione riparia, i progetti di “navigazione” come ultima scusa per cavare sabbia e ghiaia dal letto dei fiumi, l’aumento e la diversificazione degli usi dell’acqua fino ad usarla in maniera indiscriminata per la neve artificiale per le piste da sci, così da allungare le stagioni sciistiche fino a maggio e mantenere gli impianti anche a quote dove la neve, in questi ultimi decenni, è divenuta una rarità”.
Negli ultimi decenni, spiega Andrea Goltara, direttore del Centro italiano per la riqualificazione fluviale, “i fiumi sono stati ristretti e canalizzati. Le pianure inondabili, spazi dove il fiume poteva esondare naturalmente senza fare danni, sono state urbanizzate, oppure isolate dal fiume attraverso argini per proteggere campi e pascoli realizzati a ridosso del corso d’acqua”. Viene in mente il caso di Olbia, dove l’anno scorso il passaggio del ciclone Cleopatra ha messo la città in ginocchio. Sul banco degli imputati c’è al primo posto la cementificazione: la città ha 16 quartieri abusivi, con molte costruzioni nell’alveo dei corsi d’acqua.
Ad aumentare il rischio alluvioni, poi, è anche l’abbassamento dell’alveo del fiume, dovuto spesso ad attività estrattive, e in diversi casi anche a interventi di messa in sicurezza, almeno nelle intenzioni. “Spesso dopo le alluvioni si chiede di rimuovere i detriti dai fiumi, maproprio a causa delle eccessive escavazioni il letto dei corsi d’acqua si abbassa, perdendo una connessione con le aree circostanti, che rimangono sospese e non riescono più ad assorbire acqua”, aggiunge Goltara. Lungo l’Adda, in Lombardia, per esempio, si contano secondo il WWF oltre 474 ettari di aree occupate da una quindicina tra cave e attività di lavorazione di inerti. Sul Piave, in Veneto, sono stati rilevati 12 cantieri di lavorazione ghiaia, per circa 33 ettari di area fluviale occupata.
C’è poi la questione del prelievo eccessivo delle acque per alimentare la produzione industriale e irrigare campi e coltivazioni in serra, che in certi casi arriva a prosciugare i fiumi durante la stagione estiva. Da una parte c’è l’inquinamento causato da fertilizzanti, nitrati e sostanze chimiche di origine industriale che finiscono nei fiumi, dall’altra “gli eccessivi prelievi d’acqua per i differenti usi, spesso scoordinati tra loro”, che “hanno stravolto i regimi naturali dei corsi d’acqua, enfatizzando i fenomeni estremi (magre e piene) ai quali, recentemente, si sono anche aggiunte le conseguenze dei cambiamenti climatici”, si legge ancora nel report del WWF. Vedi il caso del Po: dove ogni anno viene prelevato il 70% dei deflussi naturali, con effetti che riguardano il prosciugamento di ambienti umidi vicini al fiume, minacciando direttamente la diversità biologica. Aspetto su cui grava anche la crescente diffusione di specie aliene, dal pesce siluro al gambero rosso della Louisiana, che, spiega ancora il WWF, “hanno ulteriormente contribuito ad impoverire la biodiversità originaria e ad alterare gli habitat”.
Insidie e criticità si nascondono anche dietro diverse derivazioni dei fiumi per produrre energia idroelettrica: le centrali spesso non adottano misure di mitigazione del proprio impatto sui corsi d’acqua, con effetti negativi sugli ecosistemi e gli aspetti geomorfologici. “In tutto il tratto derivato, la portata rilasciata è molto diversa da quella naturale. Dighe o invasi di frequente alterano i sedimenti, con effetti che si sentono per decine o centinaia di chilometri: si producono ondate di fango che possono portare per esempio anche a morie di pesci. E critico è anche il fenomeno dell’hydropeaking, picchi di portata legati a produzioni di picco degli impianti nelle ore del giorno in cui c’è maggiore richiesta di energia: si producono così delle piccole piene che alterano le forme geomorfologiche dell’alveo e hanno effetti devastanti sugli ecosistemi in termini di spiaggiamento e trascinamento”.
Legambiente Piemonte-Valle d’Aosta ha denunciato in un documento la situazione dei fiumi delle due regioni. Ecco per esempio qual è stata la situazione nell’estate 2012 in provincia di Cuneo: “A partire dalla fine di luglio 2012, si è verificata una situazione di asciutta totalenei seguenti corsi d’acqua: fiume Po, torrente Varaita, torrente Maira, torrente Grana, torrente Stura, torrente Gesso. Si tratta di corsi d’acqua che, nel tratto montano, vedono ridimensionate (anche negli affluenti minori) le loro portate a causa di derivazioni idroelettriche; il loro sbocco nella pianura, a causa delle derivazioni irrigue, li vede ridotti a distese di sassi, com’è evidente per chi percorra, a partire da luglio, le principali strade pedemontane. Particolarmente gravi sono, in Provincia di Cuneo, le conseguenze sugli ecosistemi fluviali, spesso in contraddizione con le stesse misure di tutela dell’ambiente e del territorio”.
L’Europa, con la direttiva quadro Acque, chiede agli stati membri di raggiungere “un buono stato delle acque superficiali” (in termini, di qualità degli ecosistemi, presenza di inquinanti specifici, caratteristiche idromorfologiche, chimiche e fisiche) entro la fine del 2015: la direttiva è del 2000, l’Italia ha avuto 15 anni per raggiungere i target comunitari, eppure per il 48% dei corsi d’acqua ancora non ci è riuscita. Ed entro il prossimo anno, come stabilisce la direttiva sulle alluvioni, dovranno essere attuati anche piani di gestione delle esondazioni.
Che fare? Spesso gli interventi di manutenzione dell’uomo hanno innescato un circolo vizioso difficile da interrompere: “Togliendo spazio ai fiumi a monte, si acuisce il rischio a valle. Il risultato è che ci si trova a rincorrere il rischio costruendo sempre più opere, che però, invece di migliorare la situazione, la complicano”, spiega Andrea Goltara, direttore del Centro italiano per la riqualificazione fluviale. Al posto di argini, sponde cementificate e dragaggio dei fiumi, si dovrebbe procedere, secondo il CIRF, a una rinaturalizzazione dei corsi d’acqua: “La stessa Europa ci chiede da tempo di restituire spazio ai fiumi, recuperando terreni inondabili dove possibile. Alcuni Paesi europei stanno anche rialzando il letto dei fiumi, per riconnetterli con i terreni circostanti e diminuire il rischio a valle”. Interventi che sul breve periodo possono essere più costosi, ma che andrebbero valutati in un’ottica di lungo termine e che riguardi tutto il territorio attraversato dal fiume. In questo senso, in Italia è stato fatto davvero poco – “la provincia autonoma di Bolzano e la Regione Piemonte sono tra i pochi enti locali che hanno tentato di recepire questi principi” – e anche il governo non ha un approccio omogeneo: “Nello Sblocca Italia un articolo prevede, nelle misure di difesa dalle alluvioni, di dare priorità alle azioni sinergiche, che diminuiscono il rischio idrogeologico e allo stesso tempo migliorano gli ecosistemi. Tuttavia, tra gli interventi previsti da Italia sicura, di questo principio non c’è traccia”.
Sul fronte dell’idroelettrico, invece, ci sono azioni di mitigazione che potrebbero essere adottate per rendere le centrali più sostenibili: “Rilasciare portate più simili a quelle naturali, sia nel normale funzionamento, sia anche nel caso di produzioni di picco, e cercare di avvicinarsi a un trasporto più simile a quello naturale per quanto riguarda il sedimenti”, dice il direttore del CIRF, che sul tema ha recentemente realizzato un report ad hoc.
Oggi in Italia ci sono 3.000 centrali idroelettriche già funzionanti e si stanno moltiplicando le domande per nuovi impianti. Dall’Arzino e Resia in Friuli, al Liri in Abruzzo, si contano circa 1.500 istanze pendenti nelle Regioni alpine e centinaia in quelle del centro sud. A fine ottobre, cento associazioni hanno lanciato un appello per chiedere, tra le altre cose, “l’immediata sospensione del rilascio di nuove concessioni e autorizzazioni per impianti idroelettrici su acque superficiali” e “una revisione degli strumenti di incentivo da mantenere solo per impianti che soddisfino tutti i requisiti di tutela dei corsi d’acqua”. Secondo il WWF, “occorre cambiare completamente il sistema degli incentivi e le regole per valutare l’impatto degli impianti idroelettrici per garantire la tutela dei fiumi, degli ecosistemi e della biodiversità, come oggi purtroppo non avviene per una risorsa preziosissima come l’acqua. Gli incentivi per gli impianti idroelettrici non distinguono tra impianti che danneggiano i fiumi e gli ecosistemi e quelli invece integrati e che rispondono a criteri seri di sostenibilità. Sempre più spesso poi le domande di concessione di derivazione per scopo idroelettrico insistono in parchi o in aree Natura 2000”.
Fonte blog Italia Nostra: http://italianostrafirenze.wordpress.com/2014/12/06/fiumi-ditalia-il-48-ancora-sotto-gli-standard-ue/
I dati sul dissesto idrogeologico (le aree ad elevata criticità rappresentano il 10% della superficie nazionale e riguardano l’81% dei comuni) e i costi dell’inazione (oltre 60 miliardi di euro i danni stimati dal 1944 al 2012) ormai li sanno anche i muri e gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Ma da dove ha avuto origine questa situazione allarmante? Cosa c’è dietro i fiumi che rompono gli argini travolgendo cose e persone e quelli ridotti a un rivolo incapace di garantire la vita agli ecosistemi acquatici?
Nel 2011, con il rapporto Fiumi d’Italia, il WWF ha censito diversi corsi d’acqua italiani, mettendone in luce le criticità. Prime tra tutti la frammentazione delle competenze e il taglio dei fondi per le opere di gestione dei fiumi. A cui si aggiungono, spiega lo studio,l’artificializzazione dei fiumi, cementificati e depredati delle risorse. “Mali che sono la “canalizzazione” e la diffusa “infrastrutturazione” (sbarramenti, traverse, plateau, piloni per strade, superstrade, autostrade…) della rete idrografica, il consumo e l’impermeabilizzazione dei suoli che dovrebbero essere lasciati all’esondazione naturale, la continua distruzione della vegetazione riparia, i progetti di “navigazione” come ultima scusa per cavare sabbia e ghiaia dal letto dei fiumi, l’aumento e la diversificazione degli usi dell’acqua fino ad usarla in maniera indiscriminata per la neve artificiale per le piste da sci, così da allungare le stagioni sciistiche fino a maggio e mantenere gli impianti anche a quote dove la neve, in questi ultimi decenni, è divenuta una rarità”.
Negli ultimi decenni, spiega Andrea Goltara, direttore del Centro italiano per la riqualificazione fluviale, “i fiumi sono stati ristretti e canalizzati. Le pianure inondabili, spazi dove il fiume poteva esondare naturalmente senza fare danni, sono state urbanizzate, oppure isolate dal fiume attraverso argini per proteggere campi e pascoli realizzati a ridosso del corso d’acqua”. Viene in mente il caso di Olbia, dove l’anno scorso il passaggio del ciclone Cleopatra ha messo la città in ginocchio. Sul banco degli imputati c’è al primo posto la cementificazione: la città ha 16 quartieri abusivi, con molte costruzioni nell’alveo dei corsi d’acqua.
Ad aumentare il rischio alluvioni, poi, è anche l’abbassamento dell’alveo del fiume, dovuto spesso ad attività estrattive, e in diversi casi anche a interventi di messa in sicurezza, almeno nelle intenzioni. “Spesso dopo le alluvioni si chiede di rimuovere i detriti dai fiumi, maproprio a causa delle eccessive escavazioni il letto dei corsi d’acqua si abbassa, perdendo una connessione con le aree circostanti, che rimangono sospese e non riescono più ad assorbire acqua”, aggiunge Goltara. Lungo l’Adda, in Lombardia, per esempio, si contano secondo il WWF oltre 474 ettari di aree occupate da una quindicina tra cave e attività di lavorazione di inerti. Sul Piave, in Veneto, sono stati rilevati 12 cantieri di lavorazione ghiaia, per circa 33 ettari di area fluviale occupata.
C’è poi la questione del prelievo eccessivo delle acque per alimentare la produzione industriale e irrigare campi e coltivazioni in serra, che in certi casi arriva a prosciugare i fiumi durante la stagione estiva. Da una parte c’è l’inquinamento causato da fertilizzanti, nitrati e sostanze chimiche di origine industriale che finiscono nei fiumi, dall’altra “gli eccessivi prelievi d’acqua per i differenti usi, spesso scoordinati tra loro”, che “hanno stravolto i regimi naturali dei corsi d’acqua, enfatizzando i fenomeni estremi (magre e piene) ai quali, recentemente, si sono anche aggiunte le conseguenze dei cambiamenti climatici”, si legge ancora nel report del WWF. Vedi il caso del Po: dove ogni anno viene prelevato il 70% dei deflussi naturali, con effetti che riguardano il prosciugamento di ambienti umidi vicini al fiume, minacciando direttamente la diversità biologica. Aspetto su cui grava anche la crescente diffusione di specie aliene, dal pesce siluro al gambero rosso della Louisiana, che, spiega ancora il WWF, “hanno ulteriormente contribuito ad impoverire la biodiversità originaria e ad alterare gli habitat”.
Insidie e criticità si nascondono anche dietro diverse derivazioni dei fiumi per produrre energia idroelettrica: le centrali spesso non adottano misure di mitigazione del proprio impatto sui corsi d’acqua, con effetti negativi sugli ecosistemi e gli aspetti geomorfologici. “In tutto il tratto derivato, la portata rilasciata è molto diversa da quella naturale. Dighe o invasi di frequente alterano i sedimenti, con effetti che si sentono per decine o centinaia di chilometri: si producono ondate di fango che possono portare per esempio anche a morie di pesci. E critico è anche il fenomeno dell’hydropeaking, picchi di portata legati a produzioni di picco degli impianti nelle ore del giorno in cui c’è maggiore richiesta di energia: si producono così delle piccole piene che alterano le forme geomorfologiche dell’alveo e hanno effetti devastanti sugli ecosistemi in termini di spiaggiamento e trascinamento”.
Legambiente Piemonte-Valle d’Aosta ha denunciato in un documento la situazione dei fiumi delle due regioni. Ecco per esempio qual è stata la situazione nell’estate 2012 in provincia di Cuneo: “A partire dalla fine di luglio 2012, si è verificata una situazione di asciutta totalenei seguenti corsi d’acqua: fiume Po, torrente Varaita, torrente Maira, torrente Grana, torrente Stura, torrente Gesso. Si tratta di corsi d’acqua che, nel tratto montano, vedono ridimensionate (anche negli affluenti minori) le loro portate a causa di derivazioni idroelettriche; il loro sbocco nella pianura, a causa delle derivazioni irrigue, li vede ridotti a distese di sassi, com’è evidente per chi percorra, a partire da luglio, le principali strade pedemontane. Particolarmente gravi sono, in Provincia di Cuneo, le conseguenze sugli ecosistemi fluviali, spesso in contraddizione con le stesse misure di tutela dell’ambiente e del territorio”.
L’Europa, con la direttiva quadro Acque, chiede agli stati membri di raggiungere “un buono stato delle acque superficiali” (in termini, di qualità degli ecosistemi, presenza di inquinanti specifici, caratteristiche idromorfologiche, chimiche e fisiche) entro la fine del 2015: la direttiva è del 2000, l’Italia ha avuto 15 anni per raggiungere i target comunitari, eppure per il 48% dei corsi d’acqua ancora non ci è riuscita. Ed entro il prossimo anno, come stabilisce la direttiva sulle alluvioni, dovranno essere attuati anche piani di gestione delle esondazioni.
Che fare? Spesso gli interventi di manutenzione dell’uomo hanno innescato un circolo vizioso difficile da interrompere: “Togliendo spazio ai fiumi a monte, si acuisce il rischio a valle. Il risultato è che ci si trova a rincorrere il rischio costruendo sempre più opere, che però, invece di migliorare la situazione, la complicano”, spiega Andrea Goltara, direttore del Centro italiano per la riqualificazione fluviale. Al posto di argini, sponde cementificate e dragaggio dei fiumi, si dovrebbe procedere, secondo il CIRF, a una rinaturalizzazione dei corsi d’acqua: “La stessa Europa ci chiede da tempo di restituire spazio ai fiumi, recuperando terreni inondabili dove possibile. Alcuni Paesi europei stanno anche rialzando il letto dei fiumi, per riconnetterli con i terreni circostanti e diminuire il rischio a valle”. Interventi che sul breve periodo possono essere più costosi, ma che andrebbero valutati in un’ottica di lungo termine e che riguardi tutto il territorio attraversato dal fiume. In questo senso, in Italia è stato fatto davvero poco – “la provincia autonoma di Bolzano e la Regione Piemonte sono tra i pochi enti locali che hanno tentato di recepire questi principi” – e anche il governo non ha un approccio omogeneo: “Nello Sblocca Italia un articolo prevede, nelle misure di difesa dalle alluvioni, di dare priorità alle azioni sinergiche, che diminuiscono il rischio idrogeologico e allo stesso tempo migliorano gli ecosistemi. Tuttavia, tra gli interventi previsti da Italia sicura, di questo principio non c’è traccia”.
Sul fronte dell’idroelettrico, invece, ci sono azioni di mitigazione che potrebbero essere adottate per rendere le centrali più sostenibili: “Rilasciare portate più simili a quelle naturali, sia nel normale funzionamento, sia anche nel caso di produzioni di picco, e cercare di avvicinarsi a un trasporto più simile a quello naturale per quanto riguarda il sedimenti”, dice il direttore del CIRF, che sul tema ha recentemente realizzato un report ad hoc.
Oggi in Italia ci sono 3.000 centrali idroelettriche già funzionanti e si stanno moltiplicando le domande per nuovi impianti. Dall’Arzino e Resia in Friuli, al Liri in Abruzzo, si contano circa 1.500 istanze pendenti nelle Regioni alpine e centinaia in quelle del centro sud. A fine ottobre, cento associazioni hanno lanciato un appello per chiedere, tra le altre cose, “l’immediata sospensione del rilascio di nuove concessioni e autorizzazioni per impianti idroelettrici su acque superficiali” e “una revisione degli strumenti di incentivo da mantenere solo per impianti che soddisfino tutti i requisiti di tutela dei corsi d’acqua”. Secondo il WWF, “occorre cambiare completamente il sistema degli incentivi e le regole per valutare l’impatto degli impianti idroelettrici per garantire la tutela dei fiumi, degli ecosistemi e della biodiversità, come oggi purtroppo non avviene per una risorsa preziosissima come l’acqua. Gli incentivi per gli impianti idroelettrici non distinguono tra impianti che danneggiano i fiumi e gli ecosistemi e quelli invece integrati e che rispondono a criteri seri di sostenibilità. Sempre più spesso poi le domande di concessione di derivazione per scopo idroelettrico insistono in parchi o in aree Natura 2000”.
Fonte blog Italia Nostra: http://italianostrafirenze.wordpress.com/2014/12/06/fiumi-ditalia-il-48-ancora-sotto-gli-standard-ue/
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