È ciò che ricorda la Corte di Giustizia europea
a tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, con la recentissima
sentenza del 13 febbraio 2014. Infatti, come chiarisce la Corte,
nell’ambito della tutela dell’ambiente è doveroso garantire ai
cittadini, sia singolarmente sia riuniti in associazioni, la possibilità
di esercitare il proprio diritto ad un ambiente salubre anche in sede
di giustizia, con la previsione, da parte degli Stati membri, di
procedimenti giurisdizionali “non eccessivamente onerosi”. Ciò che,
peraltro, prevede la Convenzione di Aarhus (sottoscritta ad Aarhus nel 1998) sull’accesso
alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi
decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, e la direttiva 2003/35/CE, la quale ha inserito proprio i principi della Convenzione nel sistema normativo comunitario.
Lo pronuncia nasce dal ricorso della Commissione europea nei confronti del Regno Unito,
considerato inadempiente sotto questo profilo, dal momento che i
processi, in materia ambientale, risulterebbero eccessivamente onerosi
per i cittadini, singoli o riuniti in associazioni, soprattutto con
riferimento agli onorari troppo elevati degli avvocati britannici.
Di seguito, un breve commento sulla pronuncia, pubblicato anche sulla rivista giuridica Lexambiente.it (Ambiente in genere. Onerosità processi in materia ambientale) 7 marzo 2014.
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Con la recente sentenza del 13 febbraio 2014 (Causa C-530/11) la Corte di Giustizia europea, nel condannare il Regno Unito per la non corretta trasposizione nell’ordinamento nazionale della direttiva 2003/35/CE,
evidenzia come nell’ambito della tutela dell’ambiente sia doveroso
garantire ai cittadini, sia singolarmente sia riuniti in associazioni,
la possibilità di esercitare il proprio diritto ad un ambiente salubre
anche in sede di giustizia, con la previsione, da parte degli Stati
membri, di procedimenti giurisdizionali “non eccessivamente onerosi”.
Come noto, infatti, la Comunità europea, al fine di contribuire ad attuare gli obblighi derivanti dalla Convenzione di Aarhus (sottoscritta ad Aarhus nel 1998) sull’accesso
alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi
decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, attraverso la direttiva 2003/35 (artt. 3, punto7, e 4, punto 4) ha inserito un
articolo 10 bis nella direttiva 85/337/CE del Consiglio, concernente la
valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e
privati, e un articolo 15 bis nella direttiva 96/61/CE del Consiglio,
sulla prevenzione e la riduzione integrate dell’inquinamento, codificata
dalla direttiva 2008/1/CE del Parlamento europeo e del Consiglio.
Gli articoli in questione sono sostanzialmente identici e prevedono l’obbligo per gli Stati membri di garantire al “pubblico interessato”, che abbia un interesse sufficiente o faccia valere la violazione di un diritto, una procedura di ricorso dinanzi ad un organo giurisdizionale per contestare la legittimità sostanziale o procedurale di decisioni, atti od omissioni soggetti alle disposizioni sulla partecipazione del pubblico stabilite dalle direttive stesse. Le disposizioni concludono precisando che una “siffatta procedura è giusta, equa, tempestiva e non eccessivamente onerosa”.
Tutti
gli Stati membri, quindi, avrebbero dovuto trasporre il contenuto della
direttiva all’interno dei propri ordinamenti nazionali, predisponendo
delle disposizioni tali da garantire ai cittadini di accedere
agevolmente agli organi giurisdizionali a tutela dell’ambiente, senza
essere costretti ad affrontare spese eccessivamente gravose, sia come
singoli che come associazioni.
Così non è accaduto nel Regno Unito, tanto da indurre, nel 2011, la Commissione europea a proporre un ricorso
alla Corte di Giustizia, per inadempimento, ai sensi dell’articolo 258
TFUE, nei confronti del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord,
proprio per il mancato adempimento degli obblighi derivanti agli Stati
membri dell’UE dagli artt. 3, punto 7, e 4, punto 4 della direttiva
2003/35/CE,sopra citata. Il punto fondamentale del ricorso in questione,
concerne il “requisito del costo non eccessivamente oneroso”, il quale, come chiarito dalla Commissione, riguarda sia le
spese processuali sia gli onorari di avvocato del ricorrente, così come
le altre spese a cui potrebbe trovarsi esposto (compreso il complesso
dei costi originati dagli eventuali gradi di giudizio precedenti) e
impone che tali diversi costi siano ragionevolmente prevedibili, oltre
che per il loro fondamento, anche per il loro importo.
Dopo
un attento esame del diritto nazionale, la Corte di Giustizia,
nell’accogliere il ricorso della Commissione, sottolinea come il
fondamento dell’inadempimento non sia da ricercare nel sistema
giurisprudenziale ampiamente utilizzato nel sistema nazionale del Regno
Unito, posto che, come ricordano i giudici della Corte, “la
trasposizione di una direttiva non esige necessariamente una
riproduzione formale e letterale delle sue disposizioni in una norma di
legge o regolamentare espressa e specifica e può trovare realizzazione
in una situazione giuridica generale, purché quest’ultima garantisca
effettivamente la piena applicazione in maniera sufficientemente chiara e
precisa (v. in tal senso, in particolare, sentenze del 23 maggio
1985, Commissione/Germania, 29/84, Racc. pag. 1661, punto 23, e
Commissione/Irlanda, cit., punto 54). Tale “piena applicazione” della direttiva comporta, in particolare nel caso in cui la disposizione in questione “sia diretta a creare diritti per i singoli”, che i destinatari della norma siano “posti in grado di conoscere la piena portata dei loro diritti e, se del caso, di avvalersene dinanzi ai giudici nazionali”. (v. in tal senso, in particolare, sentenza del 26 giugno 2003, Commissione/Francia, C‑233/00, Racc. pag. I‑6625, punto 76).
D’altra parte, se in linea generale, afferma la Corte di Giustizia, “non
necessariamente la prassi giurisprudenziale ha carattere incerto e non
soddisfa i requisiti di chiarezza e precisione richiesti dalla normativa
comunitaria”, la stessa Corte è piuttosto netta nel giudicare
insufficiente la trasposizione della direttiva 2003/35/CE attuata dal
Regno Unito, laddove afferma “a tal riguardo, la mera
circostanza che, per verificare se il diritto nazionale soddisfi gli
obiettivi di tale direttiva, la Corte sia obbligata a procedere
all’esame e alla valutazione della portata, del resto discussa, di
differenti decisioni dei giudici nazionali, e dunque di una
giurisprudenza complessiva, mentre il diritto dell’Unione conferisce ai
singoli diritti precisi che esigerebbero, per essere effettivi, norme
univoche, porta a ritenere che la trasposizione affermata dal Regno
Unito non sia in ogni caso sufficientemente chiara e precisa”.
Tale
sistema, infatti, attribuirebbe al giudice nazionale, nell’applicazione
del regime delle spese del giudizio, un potere discrezionale
eccessivamente ampio e non “indirizzato” da alcuna disposizione chiara e
univoca.
E,
sotto tale aspetto, la situazione di incertezza non viene
sostanzialmente mutata nemmeno con la facoltà, riconosciuta al
ricorrente, di chiedere al giudice il beneficio di un’«ordinanza di tutela in materia di spese»,
che gli consentirebbe di ottenere, in una fase poco avanzata della
procedura, una limitazione dell’importo delle spese eventualmente
dovute. Infatti, non essendo tale prerogativa del giudice supportata da
una norma giuridica chiara e precisa, che obblighi il giudice nazionale
a garantire un costo del procedimento non eccessivamente oneroso per il
ricorrente, lascia in ogni caso allo stesso un margine di
discrezionalità così ampio da non garantire “la conformità del diritto nazionale al requisito sancito dalla direttiva 2003/35”.
Inoltre,
il giudice non sembra essere tenuto a concedere la tutela quando il
costo del procedimento è oggettivamente irragionevole. A parere della
Corte, quindi, tale regime giurisprudenziale “non
consente di garantire al ricorrente una ragionevole prevedibilità per
quanto riguarda sia il fondamento sia l’importo del costo del
procedimento giurisdizionale da lui proposto, mentre tale prevedibilità sembra ancora più necessaria dal momento che i procedimenti giurisdizionali nel Regno Unito comportano, come riconosciuto da tale Stato membro, onorari di avvocati elevati”.
Non
solo. Oltre al generale regime delle spese, occorre considerare
ulteriori oneri finanziari derivanti al ricorrente dalla partecipazione
al procedimento giurisdizionale, anche in materia ambientale, che
potrebbero aggravare pesantemente la sua posizione. È il caso del regime dei controimpegni alle misure provvisorie imposte dal giudice, le quali “consistono
principalmente nell’imporre al ricorrente l’impegno a risarcire il
danno che potrebbe derivare da una misura provvisoria se il diritto che
quest’ultima mirava a tutelare non sia infine riconosciuto fondato.
Anche in tale ambito, la Corte di Giustizia, accogliendo l’argomento
della Commissione, ritiene che il requisito del costo non eccessivamente
oneroso non sia imposto al giudice nazionale con tutta la chiarezza e la precisione richieste, posto che, sottolinea la Corte, “il
Regno Unito si limita ad affermare che, in pratica, i controimpegni non
sarebbero sempre imposti in controversie in materia di diritto
dell’ambiente e che non sarebbero chiesti ai ricorrenti privi di mezzi”. In realtà, anche il sistema dei controimpegni alle misure provvisorie è insufficiente e “idoneo a costituire un ulteriore fattore di incertezza e imprecisione per quanto riguarda il rispetto del requisito del costo non eccessivamente oneroso”.
Conseguentemente, non avendo trasposto correttamente gli articoli 3, punto 7, e 4, punto 4, della direttiva 2003/35, nella parte in cui prevedono che il costo dei procedimenti giurisdizionali indicati non debba essere oneroso, il Regno Unito è venuto meno agli obblighi ad esso incombenti in forza di tale direttiva.
Claudia Basciu
Riferimenti:
Corte di Giustizia dell’Unione Europea
Corte di Giustizia dell’Unione Europea
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