La
disoccupazione giovanile si attesta intorno al 37% : l’agricoltura
potrebbe offrire delle possibilità I posti di lavoro sono in crescita
del 6% nel settore e in tutta Italia compaiono “esempi virtuosi”
di CARLO PETRINI
Circa vent’anni fa il sistema universitario francese si rivoluzionò con
l’intento di ringiovanire la classe docente che stava vistosamente
invecchiando e questo poneva una serie di questioni non solo
occupazionali ma anche di visione della cultura e dell’insegnamento.
Iniziarono così a velocizzarsi e semplificarsi i passaggi da studente a
ricercatore, da ricercatore ad assistente, da assistente a docente e nel
giro di qualche anno il sistema si rinnovò con beneficio di tutti. La
nostra agricoltura è più o meno in quella situazione: pochi operatori,
con un’elevata età media, con culture legate ai decenni passati e poche
prospettive di futuro, quindi scarso carburante per il presente. A
questo si aggiunge un dato che sgomenta: la disoccupazione giovanile
veleggia intorno al 37%, e quella complessiva si attesta all’11%
appesantendo destini ed esistenze individuali e familiari, e
sostanzialmente sprecando un tesoro di intelligenze e potenzialità.
Sembrerebbe un classico 2+2: l’agricoltura ha bisogno di giovani, i
giovani hanno bisogno di lavoro. Dovrebbe risultare logico e immediato
che la prima preoccupazione della politica oggi dovrebbe essere quella
di facilitare l’accesso dei giovani (ma anche dei quarantenni e
cinquantenni che stagnano da anni in cassa integrazione o che si
ritrovano senza un lavoro fino a poco tempo fa considerato “sicuro”) in
agricoltura.
Da qualche parte ci stanno provando: a Cervere, in provincia di
Cuneo, il Consorzio di Valorizzazione e Tutela del Porro, ha fatto il
suo 2+2. La domanda di Porro di Cervere cresce, la produzione non è
sufficiente, tante persone in paese sono senza lavoro. Non era un 2+2
scontato: i produttori del consorzio avrebbero potuto semplicemente
aumentare le loro produzioni, affittare o acquistare altri terreni, il
loro ruolo di imprenditori agricoli li avrebbe giustificati. Ma si sono
ricordati che prima di essere imprenditori agricoli sono cittadini, sono
parte di una comunità. Sicché hanno proposto un bando per disoccupati
(www. porro-cervere. cn. it/): loro ci mettono la terra e la formazione
per la prima stagione, e il supporto alla commercializzazione del
prodotto. Poi, dopo questo anno di prova, chi vuole continuare, chi si
sarà appassionato e avrà dimostrato di poter fare questa cosa con
serietà, potrà avere l’aiuto di una banca locale per avviare la sua
impresa.
Tantissime sono poi le iniziative individuali, al punto che,
nonostante tutto, il comparto agricolo pare essere l’unico in questo
paese, a segnare andamenti positivi, con il numero dei posti di lavoro
in crescita di circa il 6% e le imprese agricole guidate da giovani in
crescita del 4%. Si tratta, certo, qualche volta, di trentenni che
decidono di riprendere e rivitalizzare aziende di famiglia, sicché si
farebbe in fretta a dire: beh, certo, se hai la terra il più è fatto.
Non è così: certo avere la terra aiuta, ma gli investimenti necessari
per metterla in produzione sono imponenti, così come sono spaventose le
trafile burocratiche che occorre seguire per realizzare a norma di legge
i propri sogni incastrando i regolamenti comunali con quelli nazionali,
cercando la via per accedere a finanziamenti regionali o europei,
insomma destinando una quantità impressionante di energie ad altro,
prima di fare davvero agricoltura.
È questa la storia di due laureati dell’Università di Scienze
Gastronomiche di Pollenzo, uno, Nicola del Vecchio, tornato in Molise
per avviare la sua azienda sui terreni di famiglia (famiglia di medici e
avvocati, che di quei terreni non si era mai preoccupata più di tanto
limitandosi a darli in affitto) e l’altro, Carlo Fiorani, tornato in
Lombardia per far ripartire con criteri di sostenibilità un’azienda
agricola lasciata da tempo al suo destino. Non so quando rientreranno di
tutti i loro debiti, ma so che vederli vendere o portare in
degustazioni i loro prodotti (pane, verdura, frutta, formaggi o salumi) e
sentire con che orgoglio, misto a stupore, dicono “l’ho fatto io” mi dà
il senso di un futuro solido che si sta costruendo a colpi di
concretezza e di straordinaria fatica, ma anche a colpi di coraggio e di
sogni spudorati, perché in quest’epoca in cui sognare sembra
un’attività da perdenti, bisogna davvero avere una buona dose di
sfacciataggine per costruire proprio sui sogni il proprio futuro.
Ma c’è anche chi parte esattamente da zero: niente famiglie di
agricoltori alle spalle, niente terreni, niente capitali. Qualche volta
anche niente competenze. È la storia di alcuni giovani viticoltori che
si stanno cimentando nel campo del vino: I Dirupi (Valtellina), Didier
Gerbelle (Valle d’Aosta), Simone Scaletta (Langhe), Gianluca Colombo di
Segni di Langa (Langhe), Val Faccenda (Roero), Andrea Tirelli (Colli
Tortonesi): storie impastate di curiosità, passione, allegria e fiducia,
ma anche di umiltà e di gratitudine verso chi può dare una mano,
insegnare, fare rete.
Forse è questo l’asso nella manica che hanno i giovani rispetto ai
loro colleghi contadini con qualche decennio in più: fanno rete,
chiedono formazione e informazione, usano i vicini di casa o i social
network, ma alla fine riescono a capire perché non dovevano potare
quando hanno potato o non dovevano lavorare il pane in quel modo lì. E
soprattutto sanno tante cose diverse: hanno formazioni in campo
umanistico, ambientale, politico, economico. E decidono di darsi
all’agricoltura, portando in dono quel che sanno e ricevendo quel che
chiunque vorrà insegnargli.
La nuova economia si rafforza quando questi giovani agricoltori sanno
operare in tutta la filiera; producono i cerali per fare il pane o
allevano pecore per produrre formaggi, studiano forme di nuova
commercializzazione diretta. E proprio l’Università di Scienze
Gastronomiche di Pollenzo nei prossimi mesi metterà in cantiere corsi di
apprendistato per salumieri, micro birrai, panettieri, affinatori di
formaggi, proprio per rispondere a queste esigenze.
La domanda allora è: cosa aspetta la nostra classe politica per
ridurre una burocrazia asfissiante? Che cosa aspetta la nostra classe
dirigente ad occuparsi di questo settore? A mettersi a studiare questo
ambito per fare in
modo che parlare di Made in Italy non diventi, a breve, un parlare a
vanvera? Cosa aspettano a capire che sta lì, in quei campi, in quelle
mani, in quei cervelli e in quella voglia di sudare, l’identità di
questo nostro paese? Bisogna che quel mestiere torni ad essere
prestigioso e soddisfacente, che torni ad essere uno dei mestieri
principi verso cui l’uomo naturalmente tende, e deve avere
riconoscimento a livello sociale ed economico. L’era del “vai a zappare”
detto a chi non pareva particolarmente dotato per gli studi, è finita
da un pezzo. Oggi a zappare ci vanno, ci vorrebbero andare, quelli che
studiando hanno capito che è a partire dal cibo che si cambia il mondo, e
si migliora l’ambiente, la salute, la qualità della vita di tutti. La
società civile ha capito bene che, come giustamente titolava un sito di
settore qualche giorno fa, è ora di “salire in agricoltura”. È ora che
lo capiscano, anzi sono già in grave ritardo, istituzioni, politica e
banche.
Repubblica
fonte: http://www.ciaccimagazine.org/?p=11423
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