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giovedì 7 febbraio 2013

Contadini: ecco i ragazzi che trasformeranno la terra in oro

La disoccupazione giovanile si attesta intorno al 37% : l’agricoltura potrebbe offrire delle possibilità I posti di lavoro sono in crescita del 6% nel settore e in tutta Italia compaiono “esempi virtuosi”
di CARLO PETRINI
Circa vent’anni fa il sistema universitario francese si rivoluzionò con l’intento di ringiovanire la classe docente che stava vistosamente invecchiando e questo poneva una serie di questioni non solo occupazionali ma anche di visione della cultura e dell’insegnamento. Iniziarono così a velocizzarsi e semplificarsi i passaggi da studente a ricercatore, da ricercatore ad assistente, da assistente a docente e nel giro di qualche anno il sistema si rinnovò con beneficio di tutti. La nostra agricoltura è più o meno in quella situazione: pochi operatori, con un’elevata età media, con culture legate ai decenni passati e poche prospettive di futuro, quindi scarso carburante per il presente. A questo si aggiunge un dato che sgomenta: la disoccupazione giovanile veleggia intorno al 37%, e quella complessiva si attesta all’11% appesantendo destini ed esistenze individuali e familiari, e sostanzialmente sprecando un tesoro di intelligenze e potenzialità.
Sembrerebbe un classico 2+2: l’agricoltura ha bisogno di giovani, i giovani hanno bisogno di lavoro. Dovrebbe risultare logico e immediato che la prima preoccupazione della politica oggi dovrebbe essere quella di facilitare l’accesso dei giovani (ma anche dei quarantenni e cinquantenni che stagnano da anni in cassa integrazione o che si ritrovano senza un lavoro fino a poco tempo fa considerato “sicuro”) in agricoltura.
Da qualche parte ci stanno provando: a Cervere, in provincia di Cuneo, il Consorzio di Valorizzazione e Tutela del Porro, ha fatto il suo 2+2. La domanda di Porro di Cervere cresce, la produzione non è sufficiente, tante persone in paese sono senza lavoro. Non era un 2+2 scontato: i produttori del consorzio avrebbero potuto semplicemente aumentare le loro produzioni, affittare o acquistare altri terreni, il loro ruolo di imprenditori agricoli li avrebbe giustificati. Ma si sono ricordati che prima di essere imprenditori agricoli sono cittadini, sono parte di una comunità. Sicché hanno proposto un bando per disoccupati (www. porro-cervere. cn. it/): loro ci mettono la terra e la formazione per la prima stagione, e il supporto alla commercializzazione del prodotto. Poi, dopo questo anno di prova, chi vuole continuare, chi si sarà appassionato e avrà dimostrato di poter fare questa cosa con serietà, potrà avere l’aiuto di una banca locale per avviare la sua impresa.
Tantissime sono poi le iniziative individuali, al punto che, nonostante tutto, il comparto agricolo pare essere l’unico in questo paese, a segnare andamenti positivi, con il numero dei posti di lavoro in crescita di circa il 6% e le imprese agricole guidate da giovani in crescita del 4%. Si tratta, certo, qualche volta, di trentenni che decidono di riprendere e rivitalizzare aziende di famiglia, sicché si farebbe in fretta a dire: beh, certo, se hai la terra il più è fatto. Non è così: certo avere la terra aiuta, ma gli investimenti necessari per metterla in produzione sono imponenti, così come sono spaventose le trafile burocratiche che occorre seguire per realizzare a norma di legge i propri sogni incastrando i regolamenti comunali con quelli nazionali, cercando la via per accedere a finanziamenti regionali o europei, insomma destinando una quantità impressionante di energie ad altro, prima di fare davvero agricoltura.
È questa la storia di due laureati dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, uno, Nicola del Vecchio, tornato in Molise per avviare la sua azienda sui terreni di famiglia (famiglia di medici e avvocati, che di quei terreni non si era mai preoccupata più di tanto limitandosi a darli in affitto) e l’altro, Carlo Fiorani, tornato in Lombardia per far ripartire con criteri di sostenibilità un’azienda agricola lasciata da tempo al suo destino. Non so quando rientreranno di tutti i loro debiti, ma so che vederli vendere o portare in degustazioni i loro prodotti (pane, verdura, frutta, formaggi o salumi) e sentire con che orgoglio, misto a stupore, dicono “l’ho fatto io” mi dà il senso di un futuro solido che si sta costruendo a colpi di concretezza e di straordinaria fatica, ma anche a colpi di coraggio e di sogni spudorati, perché in quest’epoca in cui sognare sembra un’attività da perdenti, bisogna davvero avere una buona dose di sfacciataggine per costruire proprio sui sogni il proprio futuro.
Ma c’è anche chi parte esattamente da zero: niente famiglie di agricoltori alle spalle, niente terreni, niente capitali. Qualche volta anche niente competenze. È la storia di alcuni giovani viticoltori che si stanno cimentando nel campo del vino: I Dirupi (Valtellina), Didier Gerbelle (Valle d’Aosta), Simone Scaletta (Langhe), Gianluca Colombo di Segni di Langa (Langhe), Val Faccenda (Roero), Andrea Tirelli (Colli Tortonesi): storie impastate di curiosità, passione, allegria e fiducia, ma anche di umiltà e di gratitudine verso chi può dare una mano, insegnare, fare rete.
Forse è questo l’asso nella manica che hanno i giovani rispetto ai loro colleghi contadini con qualche decennio in più: fanno rete, chiedono formazione e informazione, usano i vicini di casa o i social network, ma alla fine riescono a capire perché non dovevano potare quando hanno potato o non dovevano lavorare il pane in quel modo lì. E soprattutto sanno tante cose diverse: hanno formazioni in campo umanistico, ambientale, politico, economico. E decidono di darsi all’agricoltura, portando in dono quel che sanno e ricevendo quel che chiunque vorrà insegnargli.
La nuova economia si rafforza quando questi giovani agricoltori sanno operare in tutta la filiera; producono i cerali per fare il pane o allevano pecore per produrre formaggi, studiano forme di nuova commercializzazione diretta. E proprio l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo nei prossimi mesi metterà in cantiere corsi di apprendistato per salumieri, micro birrai, panettieri, affinatori di formaggi, proprio per rispondere a queste esigenze.
La domanda allora è: cosa aspetta la nostra classe politica per ridurre una burocrazia asfissiante? Che cosa aspetta la nostra classe dirigente ad occuparsi di questo settore? A mettersi a studiare questo ambito per fare in
modo che parlare di Made in Italy non diventi, a breve, un parlare a vanvera? Cosa aspettano a capire che sta lì, in quei campi, in quelle mani, in quei cervelli e in quella voglia di sudare, l’identità di questo nostro paese? Bisogna che quel mestiere torni ad essere prestigioso e soddisfacente, che torni ad essere uno dei mestieri principi verso cui l’uomo naturalmente tende, e deve avere riconoscimento a livello sociale ed economico. L’era del “vai a zappare” detto a chi non pareva particolarmente dotato per gli studi, è finita da un pezzo. Oggi a zappare ci vanno, ci vorrebbero andare, quelli che studiando hanno capito che è a partire dal cibo che si cambia il mondo, e si migliora l’ambiente, la salute, la qualità della vita di tutti. La società civile ha capito bene che, come giustamente titolava un sito di settore qualche giorno fa, è ora di “salire in agricoltura”. È ora che lo capiscano, anzi sono già in grave ritardo, istituzioni, politica e banche.
Repubblica

fonte: http://www.ciaccimagazine.org/?p=11423

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